Emanuela CanepaCrescere con i classici

Appartengo a una generazione che ha iniziato a leggere tirando giú dagli scaffali quel che c’era in casa. Non esisteva una differenza davvero netta tra libri per ragazzi e libri per adulti, e non erano diffuse come ora le biblioteche di quartiere – o almeno non a Roma, dove sono cresciuta – per ampliare l’offerta. Perfino le librerie, a ripensarci ora, erano luoghi austeri, prestigiosi, imponenti, perlopiú in centro storico, e quindi difficili da raggiungere. Senza contare che non avevamo un soldo, e anche se qualcuno ci avesse portato fino a lí non avremmo comunque potuto permetterci di comprare nulla. Se volevi leggere, quindi, avevi a disposizione solo quello che potevi rimediare facilmente a casa tua, o al massimo da un parente compiacente. E nelle case della media borghesia dei primi anni ’70 c’erano quasi solo classici, libri scritti prevalentemente tra la fine del XVIII e il XIX secolo. Se accanto a questi c’era anche qualche autore piú recente, diciamo del genere di Moravia, non era raro che con una certa pruderie piccolo-borghese venisse giudicato inadatto per i ragazzi, con il risultato che quei volumi finivano collocati molto in alto sugli scaffali dove si poteva stare certi che non avremmo potuto raggiungerli.

In un certo senso credo di essere cresciuta con la convinzione che la letteratura coincidesse con questo: cose accadute molto tempo fa, con personaggi vestiti in modo diverso da noi, e regole e obblighi sociali vagamente ridicoli ai miei occhi di ragazzina ma molto vincolanti per loro. E questa condizione – la consapevolezza cioè che si trattasse di un mondo diversissimo dal mio – mi ha sempre affascinata. Mi avvicinavo a quei romanzi con lo stesso stupore con cui altri leggevano di fantascienza. Tanto piú che ci ho messo poco a rendermi conto che, al di sotto della patina sociale che si adeguava a un andamento distante da quel che conoscevo, come un fiume carsico scorrevano però le stesse pulsioni che invece mi erano familiari. L’amore, l’odio, la passione, il desiderio. La grammatica relazionale parlava una lingua diversa, le lettere dell’alfabeto però erano le stesse. Ho visitato quel mondo con l’entusiasmo di un’esploratrice. Ricordo proprio il piacere fisico di avere tra le mani certi tomi scuri grossi e pesanti che mi facevano compagnia per mesi. Mi sono appassionata in modo particolare ai destini delle donne, perché mi pareva davvero inconcepibile che riuscissero a vivere e a perseguire degli obiettivi dovendo subire cosí tante restrizioni, con quell’occhio del mondo freddo e giudicante sempre puntato su di loro. E a forza di leggere ho finito per sentirmi parte di quell’universo come se ci fossi nata, al punto che ancora oggi, se mi capitasse per qualche sortilegio di trovarmi catapultata in quegli anni, credo proprio che mi adatterei senza troppe difficoltà.

Naturalmente è riduttivo accorpare tutta la letteratura del XVIII e XIX secolo solo sulla base della data di prima pubblicazione. Si tratta di un corpus immenso fatto di storie e autori che non hanno nulla in comune. Questa però è una consapevolezza stilistica e formale al di fuori della portata della ragazzina che sono stata. Per me a quel tempo era un territorio del tutto omogeneo, dalle coordinate familiari, in cui mi muovevo a mio agio. Ed è questa la percezione che è rimasta ferma nella mia memoria.

Ho imparato il senso profondo dell’amore da Emily Brontë, leggendo e rileggendo credo non meno di una decina di volte Cime Tempestose, di recente ripubblicato in una nuova traduzione di Monica Pareschi. E ho capito il destino di infelicità che toccava alle donne prive di mezzi ma con una vocazione e un cuore limpido a fianco di Jane Eyre, il romanzo della sorella di Emily, Charlotte Brontë. Però non erano le storie d’amore a sedurmi. Quel che mi incollava alle pagine era la fermezza del loro carattere, la determinazione a trovare una strada all’interno di una società come quella in cui vivevano, un percorso a ostacoli irto di regole e vincoli che impediva qualsiasi scarto. Se ho sviluppato una passione per l’Inghilterra, e in particolar modo per le Highlands e le brughiere, credo sia stato proprio perché intuivo che i paesaggi montuosi e pieni di pioggia e di vento erano il perfetto correlativo oggettivo della forza di carattere di quelle donne rocciose nella forza d’animo e nei sentimenti.

Quando poi avevo bisogno di alleggerire le atmosfere a tinte foschissime delle sorelle Brontë, alternavo la lettura con un’autrice che raccontava gli stessi scenari ma in forma infinitamente piú lieve e arguta, Jane Austen. Di lei mi seduceva la leggenda del piccolo scrittoio in mogano sotto la finestra nella dining room del Chatow Cottage, che si visita ancora oggi nella casa dove visse per buona parte della sua vita. Che fosse stata capace di edificare quei mondi policromi e pittoreschi, ma anche perfettamente coerenti come un meccanismo a orologeria, seduta a un tavolo minuscolo come quello, mentre sorelle e nipoti le giravano intorno spezzando ogni momento la sua concentrazione, mi sembrava incredibile. Apprezzo tutti i romanzi della Austen, ma ce ne sono due in particolare per cui ho una vera predilezione. Il primo è tra i suoi piú celebri, Ragione e sentimento. L’altro invece è meno noto e forse ancora meno letto, Persuasione.

Di Ragione e sentimento ho amato il fatto che le due protagoniste, Elinor e Marianne, opposte nei loro diversissimi caratteri, sono in fondo due facce dello stesso sentimento. Ognuno di noi nei momenti diversi della sua biografia amorosa si colloca in qualche punto lungo un continuum emozionale compreso tra Elinor e Marianne. A volte la vita ci impone la versione di Elinor, e ci costringe a una posa saggia e distaccata, tacendo per alleviare la pena che ci causa rinunciare a ciò che desideriamo, altre ci spinge tra le braccia di Marianne, consentendoci di lasciarci andare in modo che qualcuno giudicherà inopportuno. Ma cosa ci importa del giudizio degli altri? Amiamo, solo questo conta. Tutto il resto è ipocrisia.

Persuasione invece, che è più misurato, intimo, raccolto in sé stesso, è un romanzo che ho amato soprattutto perché dice molto della grandezza della Austen. È l’ultimo romanzo completo che scrisse prima della morte, e forse non avrebbe avuto questo titolo se Jane fosse vissuta, perché lo pubblicò postumo il fratello, e scelse lui. Eppure è un titolo perfetto. È proprio intorno a questo che ruota il meccanismo narrativo: siamo tutti vittime potenziali di quelli che sono convinti di sapere cosa è meglio per noi. Siamo tutti vittime della persuasione altrui esercitata senza grazia e a volte senza pietà nei nostri riguardi. E in questo romanzo non c’è solo il punto di vista delle donne. La Austen si cala nell’animo di un uomo austero che, con decoro e dignità, rimane per sempre fedele alla sua idea dell’amore, anche a costo della solitudine. Ancora oggi, e sono passati piú di trent’anni da quando ho letto il romanzo, penso che la lettera del Capitano Wentworth sia tra le piú belle cose d’amore scritte in letteratura: «non ho mai amato nessuna all’infuori di voi. Posso essere stato ingiusto, forse debole e offeso, ma incostante mai».