Giorgio SciannaTempo di distopia

La distopia ha bisogno del Tempo. Di per sé non sarebbe un ingrediente necessario: il mondo distopico è una realtà capovolta dove il male e il negativo hanno la meglio, è l’altra faccia della moneta rispetto all’utopia. Basterebbe insomma capovolgere le dimensioni, usare la logica o la geografia, ma si finisce invece quasi sempre per usare il grimaldello temporale.

 

Nel 1895 H.G. Wells l’aveva già capito e per raccontare un mondo abitato da due razze (quella superiore che vive di svaghi e quella inferiore nascosta nei sotterranei) si inventa La macchina del tempo e sposta le lancette nell’anno 802701, ma non gli basta, si muove ancora in avanti quando sulla Terra rimarranno solo crostacei con gli occhi maligni. È un Darwin al contrario il suo, un’evoluzione che corre verso il disastro.

Anche l’ucronia per creare universi distopici gioca col Tempo, lo azzera e lo reinventa, come un architetto che di colpo butta giú le fondamenta su cui si è sempre appoggiata la casa. Nel romanzo Il complotto contro l’America Philip Roth crea la sua controstoria facendo diventare presidente degli Stati Uniti in piena Seconda Guerra Mondiale Charles Lindbergh, antisemita e filonazista, e per le comunità ebraiche di Newark cominciano tempi bui. Nell’ucronia l’autore si fa Dio. A volte riesce a raddrizzare il mondo come Quentin Tarantino in Inglorious Basterds che annienta con gran piacere i nazisti in buon anticipo, ma per lo piú l’autore/demiurgo il mondo lo porta alla catastrofe, vuole andare a esplorare gli abissi piú profondi. E per riuscirci ha bisogno sempre dal Tempo, smontato e rovesciato, riuscendo a raggiungere con l’arte quello che la scienza non riesce a ottenere.

Forse è una difesa, c’è bisogno di pensare che il Male abiti in tempi mai esistiti oppure lontani, oltre le nostre vite, oltre le vite dei nostri figli. C’è forse la speranza che in fondo il nostro futuro possiamo ancora cambiarlo, salvandoci in qualche modo. È quello che Kazuo Ishiguro ci nega con Non lasciarmi. I suoi protagonisti si muovono in un presente alternativo, sono i ragazzi del collegio Hailsham, sono cloni che non diventano adulti, e sono vicini, vicinissimi. Seguire i ragazzi lottare invano per avere un futuro che non può arrivare è un’esperienza straziante, dove non c’è distanza, non c’è riparo per il lettore. Per questo Non lasciarmi è un libro che fa piangere come pochi altri, perché lí dentro lasci qualcosa che ti appartiene.

Per assurdo il deserto post-apocalittico raccontato da Cormac McCarthy, La strada, è piú rassicurante, almeno nel suo finale, una luce ce l’ha: il ragazzino cammina verso un’idea di futuro. Il padre morto è alle sue spalle, si spalanca una casa con una famiglia. «Quando la donna lo vide lo abbracciò e lo tenne stretto. Oh, gli disse, come sono contenta di vederti. Ogni tanto la donna gli parlava di Dio. Lui ci provava a parlare con Dio, ma la cosa migliore era parlare con il padre, e infatti ci parlava e non lo dimenticava mai». Cormac McCarthy ha messo il finale piú tenero proprio nel suo romanzo distopico. Non so perché l’abbia fatto. Ma il Tempo serve anche a questo, a darci speranze che ancora non vediamo.