Giuseppe CulicchiaIl paese delle meraviglie

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Attila e Zazzi sono amici per la pelle. A prima vista non si direbbe, perché sono diversi in tutto, il carattere, le famiglie d’origine, lo sguardo sul mondo. Attila è un Charlie Brown che sogna a occhi aperti, timido, riflessivo e incapace di buttarsi; la sua è una famiglia disgregata: un padre spento e rassegnato che costruisce gabbie per canarini chiuso in garage, una madre che vive nel rimpianto di una vita agiata, una sorella, amata, che sfugge l’ipocrisia famigliare andandosene a Milano. Francesco Zazzi detto Franz invece è un tipo «fulminato», privo di freni inibitori, dichiaratamente fascista, sempre sopra le righe ma anche profondamente libero. A unirli, quella che sembra essere l’unica via di fuga: un’amicizia vera e indissolubile.

Sullo sfondo, l’Italia del 1977 segnata dal sangue e dalla violenza, il punk e le radio libere, Andrea Pazienza, i Sex Pistols, l’eroina e la TV a colori, Lucio Battisti e il Toro messo in campo da Gigi Radice col suo gioco all’olandese. Politicamente scorretto ma pieno di umanità, Il paese delle meraviglie coglie il volto e l’anima di un’intera generazione, dando voce con onestà e senza ipocrisie ai ragazzi che, a sinistra come a destra, bruciavano della stessa febbre: crescere in fretta e cambiare il mondo.

Leggi un estratto.

«Giuseppe Culicchia è il più acuto osservatore che abbiamo in Italia. Sottolineo osservatore in luogo di narratore, poiché Culicchia non racconta ma esprime, non incalza ma scava, non sorprende ma ipnotizza» (Sergio Pent, «La Stampa»).

L’intervista per Rai Letteratura.

Dalla nuova introduzione dell’autore:

«Da parte mia sono sempre molto contento quando qualche reduce dal ’77 mi viene a dire che Il paese delle meraviglie è un libro onesto, perché questo innanzitutto volevo fare: scrivere un romanzo privo di ipocrisie su uno dei momenti piú tragici ed euforici e controversi della storia repubblicana, dando voce ai ragazzi che in quegli anni a sinistra come a destra sognavano a modo loro di cambiare il mondo. Senza giudicarli: perché un romanzo non è un’aula di tribunale, e i personaggi di una storia hanno il diritto di essere se stessi, e devono poter vivere attraverso le loro parole e le loro azioni senza infingimenti, abbellimenti o giustificazioni […] In questo romanzo ho fatto del mio meglio per riportare in vita quell’anno. Ho cercato di restituirne la vitalità oltre al dolore. E per questo ho scritto la storia che tenete tra le mani al presente. Perché in realtà tutto è eternamente presente, almeno fino a che lo ricordiamo portandolo dentro di noi. E anche se dal 1977 sono trascorsi ormai quarant’anni io non posso e non voglio dimenticare».