Raffaele Alberto VenturaLa regola del gioco

16+

Comunicare è come respirare: lo facciamo tutti, in ogni momento. Comunichiamo con la voce, con il corpo e sempre di piú – chi lo avrebbe detto trent’anni fa? – per iscritto, attraverso Internet e i social network. Lasciamo tracce durature e siamo letti potenzialmente da chiunque. Cosa potrebbe andare storto in questo processo? Molte cose. Potremmo offendere un solo individuo, se va bene, o un milione di persone in una volta sola, se va malissimo. Potremmo compromettere per sempre la nostra immagine pubblica, renderci ridicoli o essere considerati dei mostri. Già, i tempi sono cambiati, e quello che solo una decina di anni fa sembrava inoffensivo è diventato piú serio; tutto ciò che prima si faceva con leggerezza richiede oggi una nuova gravità.

Ma attenzione, i tempi non cambiano mai in maniera uniforme, non è mai esistito e non esiste un unico «spirito del tempo»: cosí ci ritroviamo a muoverci tra sensibilità differenti, tra contesti in cui «non si può piú dire niente» e altri in cui si dice molto, persino troppo. Se il respiro è un dono innato, la comunicazione richiede invece competenze articolate. Come prima cosa bisogna imparare un alfabeto e una lingua, questo diamolo per scontato. Ma dobbiamo inoltre conoscere i codici culturali: ovvero quello che si può dire o non si può dire in funzione del luogo, del momento e dell’interlocutore che ci troviamo davanti. Perlomeno se vogliamo controllare il modo in cui verremo giudicati noi che parliamo. Insomma: se non vogliamo fare danni. 

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