Maricarmen Tranchina (Palermo)
«“C’è un luogo, lo chiamano Italia…” Ripenso con dolcezza e nostalgia al tempo, ormai lontano, in cui l’Eneide era fatta di figure poetiche; ma so che se mi ostinassi a perpetuare quel tempo, nonostante ciò che accade intorno a noi, mi sentirei colpevole». È quanto afferma Maurizio Bettini nel Prologo del suo ultimo lavoro Homo sum. Essere “umani” nel mondo antico. È indubbio che la cultura dei Greci e dei Romani sia profondamente diversa dalla nostra, secondo uno scarto che lo stesso Bettini definisce come «distanza che ci separa dagli antichi». È pur vero che si possono individuare – continua l’autore – «alcune specifiche forme culturali in base alle quali Greci e Romani si ponevano problemi in qualche modo simili a ciò che noi oggi definiamo diritti umani».
Nel primo libro dell’Eneide si parla di naufraghi e di accoglienza, ed è proprio da qui che prende le mosse il saggio di Bettini, dal naufragio dei Troiani sulle coste di Cartagine, mentre sono diretti in Italia: «Che stirpe d’uomini è questa? O quale mai tanto barbara patria permette questi usi? Ci nega accoglienza alla riva, viene ad aggredirci, e ci scaccia dal margine estremo del lido. Se disprezzate il genere umano e le armi mortali, temete almeno gli dei, memori di giustizia e iniquità» (Eneide, I, 539-543, traduzione di Alessandro Fo). Un popolo che nega accoglienza, hospitium, ai naufraghi è un popolo barbaro, i suoi usi non sono civili, non sono umani, non appartengono al genus humanum. E la regina Didone, per prima vittima di violenza, costretta «a curare a distesa con guardie i confini» (Eneide, I, 564), rassicura i naufraghi, li invita a non avere timore: subducite naves, tirate in secco le navi! «Le frontiere si chiudono di fronte a degli aggressori, ma non di fronte ai naufraghi» – commenta Bettini – e ciò solo basterebbe a consigliare, oggi piú che mai, la lettura di questo testo.
Ma l’autore continua, con grande acume e con stile semplice e accurato al tempo stesso, ricordandoci che «il primo libro dell’Eneide ha contribuito a creare la consapevolezza culturale che ha portato alla elaborazione di quei principi di reciproco rispetto e garanzia, basilari per la nostra convivenza, che oggi chiamiamo diritti umani». E da qui Bettini intraprende un cammino davvero interessante, un percorso che si snoda fra tre strade: osservare la dipendenza tra la concezione moderna e il pensiero classico; misurare la distanza che ci separa dagli antichi; individuare quelle forme culturali in base alle quali i Greci e i Romani si ponevano problemi simili a ciò che noi oggi identifichiamo come diritti umani.
E cosí l’autore rilegge la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 alla luce della cultura greca e romana, partendo proprio dal titolo, da quel «diritti umani» che sembra ricalcare l’espressione latina ius humanum ricorrente in tanti scrittori romani. Attraverso un’analisi comparata di termini, articoli e brani classici, Bettini mette in relazione i valori dell’humanitas con il testo della Dichiarazione del ’48, senza però negare le forti divergenze che ci separano dalla cultura del mondo antico, prima fra tutte l’idea di uguaglianza fra gli uomini, concetto del tutto estraneo a un Greco di età classica. Per non parlare della discriminazione fra i sessi, fermamente rifiutata dalla Dichiarazione, in netto contrasto con la marginalità sociale e politica della donna nella società antica. La schiavitù, altro elemento discriminante, è componente essenziale della civiltà classica, laddove, invece, secondo la Dichiarazione Universale «tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti». Ma la prospettiva piú interessante, secondo Bettini, rimane quella dell’individuazione di possibili categorie di pensiero, interne alla cultura classica, «che possano richiamare i principi contenuti nella Dichiarazione del 1948, sia pure articolandoli in forme differenti». E l’interesse si sposta adesso sullo ius naturale, comune a tutti gli uomini, ciò che viene prima della norma, ciò che Seneca definirà humanum officium, il dovere degli uomini verso gli altri uomini: «obblighi riconosciuti – scrive ancora Bettini – anche al di là dell’appartenenza alla stessa comunità…obblighi umani…Il naufrago si aggrappa alla mano che lo salva non perché ne abbia diritto, ma perché chi gliela porge ha il dovere di non farlo annegare». In questo ribaltamento di paradigma tra il mondo classico e quello moderno, in questo passaggio da un «dovere» umano a un «diritto» umano, è la categoria di pensiero che cambia, è la prospettiva che muta: «ciò che per noi moderni è un diritto che promana dall’interno della persona, in quanto persona umana, per gli antichi è piuttosto un obbligo che viene imposto dall’esterno, sotto l’impulso della divinità che vigila sul buon ordine del mondo».
Bettini fa uso di continue, opportune citazioni di grandi autori classici, ma anche di filosofi moderni e contemporanei, da Omero a Plutarco, da Plauto a Lattanzio, da Hegel alla Nussbaum, per ricordarci come «certi principi, doveri, diritti, trasgressioni hanno un carattere genericamente umano, e come tali possono travalicare i secoli e le culture». Conclude il saggio un’analisi linguistica attenta, rigorosa e per nulla scontata, che, attraverso i principali termini che in Grecia e a Roma designavano concetti equiparabili a quello moderno di «diritti umani», giunge a definire il primo principio della «umanità», il fondamento dell’essere uomo: la volontà di conoscere l’altro, il diverso, lo «straniero». «Propius res aspice nostras», guardaci piú da vicino, considera chi siamo, è la preghiera dei naufraghi alla regina Didone, un invito a superare la barriera dei pregiudizi attraverso la conoscenza.
Homo sum è il titolo del saggio di Bettini. «Homo sum, humani nihil a me alienum puto» («Sono uomo, niente di umano ritengo mi sia estraneo») recita quel famosissimo verso di Terenzio, che, a detta di Seneca, dovrebbe guidare i pensieri e le azioni di chiunque voglia comportarsi secondo le leggi della «umanità». Homo sum…non serve altro. La condivisione della stessa natura umana genera da sé apertura, non chiusura. E, nell’epilogo, Bettini sottolinea come Roma, fin dalla sua fondazione, «che mescola fra loro uomini da un lato, zolle di terra dall’altro», sia stata una città aperta verso gli altri, «una città in cui non solo gli stranieri, ma perfino gli schiavi possono ottenere la cittadinanza»; proprio da questo scaturirono la sua forza e la sua grandezza. Una natura che sembra oggi avere perso.
Le parole di Virgilio, quelle di Seneca o quelle di Cicerone, pur da una diversa prospettiva storica, non possono piú risuonare oggi come semplice opera letteraria. E le parole di Bettini ci chiamano in causa senza appello: «Ci sono troppi dispersi nel mare che fu di Virgilio, troppi cadaveri che fluttuano a mezz’acqua perché quei versi si possano ancora leggere solo come poesia. Sono diventati cronaca». Abbiamo ancora bisogno che qualcuno ci insegni – come si domandava Seneca – «a porgere la mano al naufrago, a mostrare la strada all’errante, a dividere il pane con l’affamato»?
«C’è un luogo, lo chiamano Italia…», quel luogo dove Enea era diretto quando fu soccorso da Didone. Lo stesso luogo in cui migliaia di naufraghi, oggi, affondano, mentre tendono la mano a un’umanità che sembra avere dimenticato se stessa.
Maricarmen Tranchina insegna latino e greco al liceo classico Garibaldi di Palermo.