Istituto Arimondi Eula, Savigliano (CN)
Classi: III D, IV A, IV B, V B, V D
Intervista al figlio Aldo Rolfi.
Quando e quanto sua madre le ha raccontato della sua esperienza e che effetto le ha fatto da bambino ascoltarla? In che modo l’esperienza del campo di lavoro ha influenzato il vostro rapporto?
Mia madre è stata una madre normalissima. Nel momento in cui ho iniziato ad avere cognizione, intorno ai 6, 7, 8 anni, ho intuito però che mia madre non era come le madri dei miei compagni di scuola: quando si parlava tra di noi io portavo delle esperienze ascoltate in casa completamente diverse dagli altri. Però, almeno nella prima infanzia, non è che avvertissi questa sua condizione particolare, né mi sono sentito diverso. Tutto è venuto fuori in maniera graduale. È nell’adolescenza che ho iniziato a fare domande. E ad ogni domanda c’era una risposta, a differenza di quanto accadeva a molti ex deportati.
Sua madre scrive che una delle maggiori difficoltà del rientro a casa era di non essere creduti, anche tra gli stessi famigliari. Come si è evoluto il rapporto tra Lidia e la propria famiglia?
Quando ritorna un soldato dal fronte c’è un’esigenza del racconto dell’azione, delle armi, dei bombardamenti. E per tanti la Prima Guerra Mondiale era un ricordo vivo, tutto era stato già visto e vissuto. Invece la deportazione è un unicum nella storia mondiale; mai si era visto uno sterminio studiato a tavolino che avesse portato all’uccisione di milioni di persone. Il ritorno per i deportati non è stato facile: cosa potevano raccontare? Dei forni crematori? Delle umiliazioni? Quindi si perdono anni: la prima volta che si sente nominare il campo di Ravensbrück è nel 1956 nel libro di Lord Russell. Sono passati 11 anni. Vagamente si sapeva qualcosa di Auschwitz, ma di Ravensbrück, Buchenwald, Mathausen cosa si sapeva. È difficile quindi pensare a un inserimento nel racconto. Il ritorno per i deportati è stato terribile per i ricordi intrinseci, ma soprattutto per la difficoltà del racconto, della non comprensione totale di chi ascoltava perché non c’erano esempi. Per cui i deportati hanno iniziato a unirsi tra di loro, a parlarsi. Quando Primo Levi chiamava mia mamma, le diceva «Lidia domani vengo a trovarti perché ho bisogno di aria del campo»: significava: «Ho bisogno di parlare con qualcuno che mi capisca anche se sto in silenzio, perché ha vissuto la mia stessa, identica esperienza». È una cosa indicativa del problema di quegli anni.
Per quanto riguarda i famigliari mamma aveva due fratelli entrambi reduci dalla campagna di Russia: con loro cercò di parlare. Con i genitori invece fu molto piú difficile. Quando mamma rientra a settembre del ’45 dopo quello che ha vissuto, sente sua mamma chiederle: «Come mai sei senza canottiera? Come fa una ragazza di 19 anni ad andare in giro senza reggiseno?» Nell’immediato – che è durato 10-15 anni – è stato davvero molto difficile. Tra l’altro mia mamma inizia ha iniziato a scrivere L’esile filo della memoria quando mia nonna è morta, perché voleva scrivere determinate cose ma non voleva che sua madre le leggesse.
Come e quando ha deciso Lidia Beccaria Rolfi di raccontare la sua storia?
Fin da subito. La decisione di parlare l’ha sempre avuta, ma bisogna arrivare alla fine degli anni 50, primi 60. Nel 59 uscì una mostra fotografica sui campi di concentramento; la prima a Milano, e subito dopo a Cuneo. Per la prima volta si spalancò un mondo che fece uno scalpore incredibile. Si vedevano le montagne di cadaveri, i forni crematori etc. Questo aprí un dibattito a livello internazionale, risvegliò alcune coscienze, soprattutto dei giovani. Per la prima volta vedevano un mondo non conosciuto: si crea una curiosità e di conseguenza, da parte dei deportati, la voglia, l’impegno di aprirsi, di cominciare a raccontare. Trasferire per quanto possibile alle nuove generazioni quella che era stata la loro esperienza. Questo ha inizio nei primi anni sessanta, quasi vent’anni dopo.
Cosa ha spinto lei come figlio a raccogliere il testimone e continuare a raccontare cosa è successo a sua madre?
Non so cosa in particolare. Sicuramente aver vissuto accanto a mia madre che andava a conferenze, interviste, che scriveva su giornali ha certamente contribuito e quando quando lei non c’è piú stata ho sentito il dovere di continuare, per quanto possibile. Sono io che me lo son sentito dentro.