Lidia Beccaria RolfiL’esile filo della memoria

Liceo scientifico C. Cafiero, Barletta
Classi: V C
Docente: Anna Valente

Lavoro realizzato dagli studenti a partire dalla lettura de L’esile filo della memoria di Lidia Beccaria Rolfi.

Mai ex deportata. Un seme d’umanità sotto le cicatrici della deportazione

«Solo la memoria custodisce e sottrae alla pericolosa rapina dell’oblio il passato, trascinandolo con sé e attestandone, giorno per giorno, la sopravvivenza necessaria in un presente che è storia lungamente protrattasi».

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Lidia Beccaria Rolfi viene arrestata il 12 aprile del 1944 e portata in diverse carceri, per ultimo quello di Torino. Il 27 aprile inizia il viaggio; ammassati all’interno di vagoni merci, i prigionieri soffrono per il sovraffollamento, per il caldo torrido, il freddo gelido. Si percepisce la sofferenza e l’umiliazione patita dai deportati, molti dei quali muoiono ancora prima di raggiungere le loro destinazioni per la mancanza di cibo e acqua. La sera del 30 giugno, dopo la separazione dagli uomini, Lidia e le altre donne giungono a Fürstenberg. Le SS ordinano loro di scendere dai vagoni; appena scese ottengono solo lo sputo dei piccoli bambini che, seguendo le dottrine e ideologie tedesche, disprezzano quei corpi provati e distrutti. Inizia una lunga camminata che le porta a un grande portone con un muro altissimo e nero: è l’ingresso per il campo di Ravensbrück. Lidia e le sue compagne sono il primo trasporto di donne Italiane nel campo femminile e lei diventa la matricola 44140.

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Lidia si definisce «l’ultima fra le schiave di Hitler»: infatti assieme ad altre deportate italiane ha il compito di costruire una parte del campo. Il lavoro forzato è aggravato dalla sua situazione fisica: la perdita del ciclo mestruale, l’invecchiamento, le piaghe sul corpo e la malformazione congenita all’anca che ha dalla nascita e che, con lo sforzo fisico che richiedono i lavori, peggiora sempre di più. Finisce, infatti, in infermeria, e l’infermiera incuriosita dalla “lingua di Dante” le dona un taccuino in cambio dell’insegnamento dell’italiano. Per i primi mesi Lidia lavora per preparare il sottocampo della Siemens. Si occupa di lavori durissimi; scarica merci, disinfesta i blocchi dalle cimici, bonifica terreni paludosi e spala la sabbia. Durante la sopravvivenza a Ravensbrück inizia una nuova forma di resistenza: infatti, assieme ad altre donne, idea delle tecniche di sabotaggio. Queste consistono nel furto o nel danneggiamento di alcuni oggetti ma soprattutto nella costruzione di armi che non siano in grado di funzionare correttamente.

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Quando arriva alla sua baracca, Lidia è accolta con freddezza dalle donne francesi lì presenti, ma una mattina Genia inizia a fischiettare Bandiera Rossa e Lidia la segue, cosí Monique, amica di Genia, si avvicina a Lidia e le chiede di raccontarle la sua storia. Inizia cosí un’amicizia che sarebbe durata ben oltre al lager. Monique si incarica della sua educazione sociale e politica, le insegna anche che una forma di resistenza nel campo è quella di tenere allenati cervello e memoria. Monique la costringe a ricordare le poesie, a ricordare e raccontare la sua terra.

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Lidia si reca nei bagni per lavarsi insieme alle compagne. Guarda nella camera accanto e vede le deportate ebree obbligate a detergere il corpo delle donne tedesche con acqua pulita. Totalmente diverso è l’ambiente in cui Lidia e le altre donne internate si ritrovano: tutte devono lavarsi utilizzando la stessa acqua sporca contenuta in una vasca senza un minimo di umanità. Sulla schiena ossuta di Lidia sono comparse delle pustole e la sua pelle è assediata da infezioni. Il suo corpo, inoltre, rispetto a quello delle tedesche è magro e infermo come quello delle sue compagne.

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In un ambiente impregnato di processi dediti all’eliminazione dell’ultimo barlume di umanità delle prigioniere, Lidia e le altre donne francesi combattono ogni giorno attraverso una forma di resistenza strettamente femminile: esse si dedicano alla cura estetica del viso, truccandosi sempre con un po’ di rossetto. Significativo è anche il dialogo fra le donne, che diventa un vero e profondo scambio culturale: Lidia, infatti, impara a parlare e scrivere il francese. Inoltre, dopo il periodo in infermeria, inizia a scrivere delle poesie nei taccuini regalati dall’infermiera polacca, che nasconde in situazioni critiche e di allarme.

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La poesia ricorda ciò che Lidia immagina pensando alla mamma: le braccia che la stringono a sé, la dolce voce e i suoi capelli bianchi che osserva ogni giorno in tutte le altre donne presenti nel campo, ma nessuna le ricorda la mamma. La invoca chiedendole aiuto per riuscire a resistere e sopportare l’attesa sperando di tornare a casa dove avrebbe visto quei bei fiori che tanto le ricordano la pace e la sua vita. Chiede alla madre di non essere triste e non piangere per lei perché vorrebbe solo stringerla per non avere piú paura e dimenticare tutto.

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Il 26 aprile le SS ordinano l’evacuazione del campo, che verrà successivamente liberato il 30 aprile dalla II Armata sovietica. Inizia cosí la Marcia della Morte per Lidia e le sue compagne. Nel tragitto una sua amica sviene per il troppo sforzo e, nonostante la stanchezza e una complicazione alla gamba, Lidia decide di aiutarla, ma subito dopo sverrà anche lei rimanendo indietro.

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Svenuta viene ritrovata da un soldato italiano, Carlo, che la porta in una cascina all’interno della quale si ritrova sola, circondata da uomini anche loro ex deportati. Per la prima volta dopo mesi mangerà un pasto caldo, si laverà con acqua pulita e indosserà abiti puliti, all’interno della cascina dormirà per due giorni di seguito sentendosi frastornata al suo risveglio. Una volta tornata cosciente del luogo in cui si trova, si presenta ai suoi compagni usando per la prima volta dopo molto tempo il suo nome. Rimarrà all’interno della cascina per qualche settimana e riceverà dai russi un trattamento di favore: solo a lei infatti permettono di usufruire degli oggetti che le tedesche in fuga hanno lasciato nelle loro abitazioni come abiti, piccoli specchi o altri oggetti da signora. A differenza sua, però, i soldati non riservano lo stesso trattamento a una donna tedesca che non riesce a fuggire e viene abusata dai soldati russi.

In quei giorni i ricordi delle atrocità subite tornano alla sua mente: infatti, quando gli uomini decidono di allestire un rogo per cuocere l’ultimo suino rimasto per cena, l’odore acre di bruciato le ricorda l’odore che si sentiva nel campo a causa dei forni crematori.

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Lidia, giunta nel campo di Lubecca, dove permane per circa tre mesi, ha la possibilità di riappropriarsi progressivamente di un legame sempre piú saldo con la vita, grazie alla maggiore libertà concessale e al ripristino della forza fisica, garantito dalla maggiore quantità di alimenti a sua disposizione. In particolar modo, momento cruciale è quello in cui Lidia, allontanatasi dalle due bambine di cui aveva iniziato a prendersi cura (Stellina e Ida), si stende nel prato, assaporandone l’erba e ricordando, nell’assoluto silenzio e solitudine meditativa, gli odori della sua vita precedente e della sua famiglia. Ha modo di respirare cosí una vitalità rinnovata, ricostruendo un solido legame con la natura e instradandosi verso una nuova stagione della sua esistenza.