Quando leggo mi piace soprattutto fare lunghe camminate, nuotare parecchio, scalare qualche picco scosceso, magari attraversare un ghiacciaio e inoltrarmi in certe foreste dove a ogni passo rischio la vita. Impossibile? Impossibile leggere mentre si scala una montagna? Impossibile trovare tra la mia sala e la cucina una selva o un ghiacciaio? Affatto!
C’è stato un tempo in cui viaggiatori ed esploratori si spingevano fino oltre il bordo delle mappe. Ammainavano le loro vele, prendevano il vento e a un tratto scoprivano, ahimé, che quel pezzo di mare azzurrissimo e profondo e indiscutibile che si stendeva di fronte alla prua, sulle carte semplicemente non esisteva. Non c’erano rotte, né paralleli e meridiani. Hai voglia di capovolgere sopra e sotto la mappa, di girarla, niente! Quel pezzo di mare semplicemente non esisteva, perché nessuno si era mai spinto fino lí a disegnarlo.
Non restava loro che navigare a vista. E cominciava la parte piú sorprendente del viaggio: da quel momento potevano avvistare vulcani alti da toccare il cielo, selve buie e intricate che parevano nascere direttamente dal mare o isole piene di pappagalli verdi. Insomma da quel momento poteva accadere di tutto.
Ecco, ci sono romanzi che ti fanno vivere la stessa emozione, tu sei lí che leggi e improvvisamente ti trovi di fronte a qualcosa che mai e poi mai ti saresti aspettato. È piuttosto straordinario in effetti, perché ogni parola, ognuno di quei piccoli segni scuri che vengono di solito chiamati caratteri tipografici, davanti ai tuoi occhi diventa una liana, un ponte tibetano, una distesa di mangrovie, e ti inoltri circospetto nella giungla, e nel giro di due pagine arrivi in cima alla montagna piú ripida o scendi nella caverna piú nera e fredda, e devi arrampicarti e attraversare distese innevate, guarda caso, proprio lí dalle parti del tuo divano, tra la sala e la cucina.
Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas è stato il primo libro a farmi un simile effetto. Ero piuttosto piccola allora, potevo avere otto, nove anni al massimo, ma questo non mi ha fermato, ho grattato instancabilmente con Edmond Dantès e l’Abate Faria un tunnel per fuggire dalla prigione. E con il conte abbiamo raggiunto, dopo diversi giorni in mare, l’isola di Montecristo, poco più grande di uno scoglio e brulla e sassosa, dove prima di morire l’Abate Faria ci aveva detto si nascondesse un tesoro. Ovviamente il tesoro lo abbiamo trovato, con tutte le conseguenze che un baule ricolmo di monete d’oro può avere!
Qualche anno dopo sono partita per un viaggio ancora piú pericoloso. Moby-Dick di Herman Melville. Si andava a caccia di balene questa volta. Insieme a me c’era Ismaele e un altro compagno di traversata, che a dirla tutta all’inizio non sembrava affatto raccomandabile, si trattava di un certo Queequeg, un gigante con la faccia tatuata e una forza spaventosa. La balena che siamo andati a cercare era bianca, gigantesca, e senza dirvi com’è finita, vi consiglio solo di guardare ogni tanto la superficie del mare: potreste vedere come un’increspatura, una nebbia di schiuma, e un’ombra appena sotto il pelo dell’acqua, immobile e splendente, di una bellezza impossibile per la vastità del corpo, per il disegno quasi incongruente della testa. Potreste vederla, perché le balene vivono anche trecento anni – come ci insegna Philip Hoare -, e perciò forse Moby Dick sta ancora nuotando da qualche parte, fatta di acqua e di tempo.
Nella parte piú profonda delle foresta si nasconde Kurtz, un uomo misterioso, affascinante e insieme folle. Lungo il fiume ha piantato dei bastoni di legno e ci ha conficcato le teste degli uomini che ha ucciso. Impenetrabile e scura al punto da sembrare nera, la giungla si stringe intorno a noi. Avvolta nella nebbia e in una strana umidità che fa gocciolare la vegetazione, si mangia ogni cosa: le rive del fiume, le rotaie della ferrovia, la barca di Marlow. Tutto questo si trova in Cuore di tenebra di Joseph Conrad.
E infine Le otto montagne di Paolo Cognetti. C’è una strada nel bosco che saliamo quando è già buio. La facciamo per mano alla mamma e poi sempre piú spesso da soli. Intorno il mondo artico della montagna, un altro ordine di grandezza. C’è il ruscello, le cui rive oltre il ponte si fanno ripide, pericolose, c’è la boscaglia e c’è una casa abbandonata, coi muri di sasso e i rovi che ci si infilano dentro. È lí che mi porta Bruno, il bambino che guarda le mucche, mi fa toccare le pietre grandi, viscide, ricoperte di muschio. E quando poi salgo abbastanza mi si spalancano di fronte le cime di roccia, il mondo minerale degli stambecchi.
Salgo fin dove l’aria si fa talmente rarefatta che mi manca il fiato, la luce è accecante e il ghiaccio scintilla bianchissimo.
Salgo fino a luoghi in cui mai sarei potuta arrivare, che mai avrei potuto scoprire senza queste storie e i personaggi che le abitano.