Quando osservo le ragazze di oggi, le vedo vogliose di studiare, informarsi, viaggiare, sperimentare relazioni, realizzarsi sul lavoro. Di essere indipendenti economicamente (e non solo). E magari a un certo punto – il se e il quando lo decidono loro – di fare pure un figlio. Insomma, ho l’impressione che le donne odierne, tra slanci e stalli, stiano comunque facendo di tutto per trovare un posto in quella società che in passato, invece, le ha escluse e marginalizzate.
Per non dimenticare che per troppo tempo non hanno avuto quasi nessuna voce in capitolo né su se stesse né per incidere sulla realtà circostante, ci pensa un saggio avvincente come un romanzo, scritto meravigliosamente da una storica di talento come Chiara Mercuri, La nascita del femminismo medievale. «Costrette al matrimonio forzato, minacciate costantemente di stupro, impedite nel ritagliarsi mansioni diverse da quelle dell’accudimento domestico, le donne medievali arretrarono sensibilmente rispetto a quelle dell’epoca precedente, neppure troppo felice» e, per cinque secoli dalle conquiste germaniche, vissero sottomesse in una società tribale. Occorreva una donna potente, visionaria e privilegiata, Maria di Francia, moglie di un conte, figlia di un re e di un’altra donna potente, visionaria e privilegiata, Eleonora D’Aquitania, per tentare nel XII secolo una rivoluzione che inaugurasse una nuova era e pretendesse non solo un ribaltamento dei ruoli donna-uomo ma proprio un loro ripensamento generale. Maria propose infatti un amore diverso, nobile d’animo, sempre palpitante e cortese, mai oppressivo o possessivo, che non esigeva il contraccambio, perché non era un baratto, che non pretendeva e non rimproverava nulla, perché soprattutto serviva a costruire l’architettura del proprio spirito e a migliorare sé stessi. Nella realtà mascolinamente primordiale di quell’epoca, l’idea di un amore di tale natura risultò deflagrante come il lancio di una bomba atomica. Non a caso la rivoluzione di Maria di Francia fallí. E piano piano si dileguarono le sue tracce e la sua memoria. Addirittura si smarrí l’identità di questa grande donna della Storia.
Cosí, durante i successivi secoli, il percorso per il riconoscimento del genere femminile continuò ad essere impervio, come racconta benissimo Jennifer Guerra nel suo saggio Il femminismo non è un brand. Bisogna infatti arrivare a un’altra rivoluzione, questa volta riuscita, quella francese nel 1789, perché una teorizzazione piú organica sul ruolo delle donne nella società prenda piede, creando una coscienza politica femminile condivisa. Da lí si sono succedute quattro ondate femministe, per approdare a un dato strabiliante: il 68 per cento delle giovani americane oggi si riconosce nella parola femminista. Guerra però intravede il pericolo attuale di annacquare una visione che nasceva radicale, criticava il potere, non importa se maschile o femminile, e immaginava un mondo piú giusto, con la ricchezza equamente ridistribuita, distante anni luce dai meccanismi capitalistici, strutturalmente patriarcali. Secondo l’autrice oggi molte conquiste (prima tra tutte la facoltà di definirsi da sole!) sono a rischio di banalizzazione, minacciate non tanto dal fatto che la pubblicità ricorra a messaggi pseudo femministi per vendere, «quanto che le aziende tendano sempre piú di frequente a trattare il femminismo come uno dei tanti prodotti in vendita». Perché, se il femminismo diventa una merce, finisce inevitabilmente per depotenziarsi.
Un romanzo che qualche mese fa ho molto amato per sapienza narrativa, lingua e talento nel sapersi intrufolare nelle pieghe dell’animo umano, I giorni di Vetro di Nicoletta Verna, ci restituisce invece uno spaccato di Romagna durante il Ventennio fascista e due ritratti femminili memorabili. Redenta e Iris si sfioreranno per tutto il libro, prima di incontrarsi solo alla fine, muovendosi in un universo contadino, primitivo e selvaggio, che ha quotidiana dimestichezza con la miseria, il dolore e l’infelicità, in cui i figli vengono tirati su a forza di manrovesci e sgridate, di duro lavoro e modi spicci, in cui i medici convivono con i guaritori, i morti parlano coi vivi e i vivi sembrano piú morti che vivi. E dove regna il sopruso, che sulle donne si abbatte furioso. E se la nonna di Redenta, la Fafina, ‘zdora solida come una quercia, è in grado di dire a suo genero Primo «stasìv zètt, ch’lè mej» e cerca di salvare sua nipote dalla violenza ferina, quasi sadica, di suo marito Vetro, la madre della protagonista preferisce non vedere, decidendo di tacere. E in fondo di accondiscendere. È di nuovo la Fafina che ha il coraggio di rinfacciare a Primo un altro indicibile orrore, quello coloniale in Abissinia con il traffico delle donne, in cui anche lui «aveva deciso di comprare una negra per contentare le sue voglie» e aveva adocchiato una bambina di dodici anni che non poteva ancora figliare «perché, se per caso resta gravida, si sporca la razza». D’altronde le donne lo sanno bene: fin dall’antichità è stato loro sottratto il diritto di parola e, insieme a esso, la possibilità di accedere al discorso pubblico e al dibattito politico, ma è solo quando riescono a parlare che comincia a sovvertirsi dalle fondamenta il potere fondato sulla loro esclusione.