È notte, una giovane dottoressa stacca dall’ennesimo turno in Pronto soccorso. Il suo lavoro è diventato un buco nero dentro cui sparisce tutto il resto – il fidanzato, le amiche, le passioni, la vita fuori di lí. A furia di difendersi dal dolore degli altri, dalla rabbia, dalla frustrazione, dall’impazienza dell’umanità varia che affolla quelle stanze, sta iniziando a non provare piú nulla. L’idealismo dei primi tempi diventa un vago ricordo, l’entusiasmo sbiadisce turno dopo turno.
Pensa a tutto questo mentre attraversa a passi svelti il parcheggio vuoto dell’ospedale, ma a un certo punto impietrisce: sul cofano di una macchina c’è una figura inquietante che sta aspettando proprio lei. Lucifero all’inizio sembra solo un’allucinazione dovuta alla stanchezza, ma poi la sua presenza si fa costante. Mentre i rapporti umani intorno a lei scompaiono, lui è l’unico che resta, che riempie il vuoto lasciato dagli altri. Ma la sua è una presenza tutt’altro che disinteressata, che porta con sé domande perturbanti e che, a un certo punto, le propone un patto.
Giorgia Protti usa con sorprendente talento alcune delle armi piú acuminate della letteratura (l’iperrealismo e il fantastico), e cosí facendo racconta le condizioni dei sofferenti e dei soccorritori, la loro vulnerabilità e le loro paure, il collasso della sanità pubblica e di chi ci lavora ogni giorno.
Leggi un estratto.
«Un romanzo coraggioso, capace di restituire l’umanissima intensità del Pronto soccorso e insieme la solitudine di chi ci lavora, le paure di chi non dovrebbe averne mai, le fragilità silenziose di chi ci cura» (Tiziano Scarpa).
«Giorgia Protti sa trovare in una scrittura vibrante e di acuminata precisione l’equivalente dello scudo di Perseo» (Filippo La Porta, «la Repubblica»).
«Un libro che riflette sul significato di cura» (Cristina Ravanelli, «Corriere della Sera»).
«Il lavoro forsennato, l’angoscia di fronteggiare quotidianamente il dolore altrui e la paura di non esserne piú capaci: una giovane dottoressa romanza la frenesia di un Pronto soccorso» (Deborah Ameri, «Io Donna»).
«Ancora non so come si può prendere la giusta distanza dal male, lavorando ogni giorno a contatto con la sofferenza altrui. So solo che, sia come operatori sanitari che come persone, non dovremmo mai rinunciare all’umanità», racconta l’autrice a «Vanity Fair».