Un padre ha piantato due alberi davanti alla sua casa, uno per ogni figlio. Il primo, un larice, è Luigi, duro e fragile, che in trentasette anni non se n’è mai andato dalla valle. Lui e Betta si sono innamorati facendo il bagno nelle pozze del fiume, tra le betulle bianche: ora non succede piú cosí di frequente, ma aspettano una bambina e nell’aria si sente il profumo di un nuovo inizio. Lui ha appena accettato un lavoro da forestale, lei viene dalla città e legge Karen Blixen.
L’altro albero è un abete: Alfredo è il figlio minore, ombroso e resistente al gelo, irrequieto e attaccabrighe. Per non fare piú guai ha scelto di scappare lontano, in Canada, tra gli indiani tristi e i pozzi di petrolio. Ma adesso è tornato. Alfredo e Luigi in comune hanno due cose. La prima sta in un bicchiere: bere senza sosta per giorni, crollare addormentati e riprendere il mattino dopo. Oltre all’alcol però c’è la casa davanti a quei due alberi. Adesso che il padre se n’è andato, Alfredo è tornato in valle per liberarsi dei legami rimasti: lui non lo sa, ma quella stamberga da un giorno all’altro potrebbe valere una fortuna.
Col passo rapido e la lingua tersa dei grandi autori, Paolo Cognetti ha scritto il suo Nebraska.
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«Erano anni che volevo fare questa “operazione di cover”: scrivere un libro da un disco, da Nebraska. Ho scoperto da poco che anche Denis Johnson, altro scrittore che amo molto, aveva scritto Jesus’son a partire dalla canzone Heroin di Lou Reed; e De André con Non al denaro non all’amore né al cielo è partito dall’Antologia di Spoon River. È un’operazione che ha senso solo se la senti tua, se non è un esercizio di stile», cosí ha raccontato l’autore su «la Lettura», in conversazione con Vasco Brondi.
«In questo libro bellissimo accade che lungo il corso della Sesia ogni cosa subisca il dolore delle azioni della nostra specie: alberi, donne, uomini e animali» (Stefano Mancuso, «la Repubblica»).
«Cognetti ha questo potere qui che è proprio dei migliori letterati. Far vivere le proprie pagine oltre il tempo presente, come fosse un Melville o un Hemingway, senza la necessità di aggrapparsi a riferimenti e ammiccamenti culturali che fanno salotto buono oggi» (Davide Turrini, «il Fatto Quotidiano»).
«In certi punti, è come se l’autore andasse a orecchio, alternando la violenza e la dolcezza, i battere e i levare, e seguendo la musica interna di ciascun personaggio per poi ricopiarla sulla pagina» (Laura Pezzino, «tuttolibri – La Stampa»).
«Il mondo di mezzo di Giú nella valle è una realtà, in Piemonte come ai piedi degli Appalachi. Chi lo racconta ci aiuta a capire chi siamo» (Stefano Ardito, «Il Messaggero»).
«Giú nella valle è un libro che invita a fare delle pause. Fermarti un attimo e ricominciare» (Luciana Littizzetto).
«Scende a valle, Paolo Cognetti, si immerge nelle acque della fragilità, nelle ombre delle persone perse, nella vita che sbatte a terra» (Francesca Cingoli, «Il Libraio»).
«Ma le parole di Cognetti sono anche carezze, non solo letterarie, rivolte ai luoghi che conosce bene e di cui il turismo di massa vorrebbe appropriarsi per ricavarne profitto. Il suo merito è spogliarli della loro apparente lontananza per restituirceli nella loro bellezza piú intima e vera, che è anche la nostra salvezza» (Giuseppe Di Matteo, «Quotidiano Nazionale»).
Filippo Maria Battaglia intervista Paolo Cognetti su Sky TG24.
L’autore è stato ospite al programma di Rai2 Stasera c’è Cattelan
e a Radio 105.