Liceo Canudo, Gioia del Colle (BA)
Classe: IV D
Docente: Irene Martino
Gli piaceva cosí tanto che decise di scriverci qualcosa di importante, e allora un giorno iniziò a prendere nota di tutto quello che vedeva e gli passava per la mente. Le velleità, le ambizioni e le delusioni, le angosce, i dolori e le gioie racchiuse nel diario che il piccolo Fortunato conserva gelosamente. I sogni tipici dei bambini, la speranza cieca nel futuro. «Voglio fare l’astronauta, il cantante, l’attore, lo scrittore». La banalità infantile che sfocia nell’assurda maturità dell’uomo adulto.
A differenza di Truman (di The Truman show), Fortunato si trova a vivere nella vera realtà, non quella protocollata e annotata da videocamere, da finti sorrisi, menzogne e false verità, limitata da uno scenario quasi claustrofobico, ma da quella schietta, brusca, dolorosa, cruda, spietata realtà quotidiana di morte, tristezza e povertà.
Fortunato ha solo 10 anni, e si trova ad attraversare quel mare che separa la sua infanzia dalla vita vera. Ad attraversare quell’ ultimo ostacolo, la porta. «Casomai non vi rivedessi, buon pomeriggio, buona sera e buona notte». Al di là ci trova subito un corpo martoriato, vuoto e rotto. Quello di Spaidermàn. Cosí lo chiamavano, lui che aveva sfidato la vertigine. La signora anziana, che con senso di pudore lo copre col telo sporco e poi la pioggia. E chi, leggendo, non ha provato compassione per quell’uomo cafone?
E poi arriva quell’inquietudine tipica dell’angoscia e quel desiderio di equilibrio interiore. Si deve rispettare il giusto equilibrio tra la rigidità e l’elasticità della struttura, gli dice suo padre, o si crolla. La casa bruciata sembra dargli quel senso di stabilità. Fortunato ci va spesso, soprattutto quando è agitato e non sa dove rifugiarsi. Potrebbe crollare ma alla precarietà lui è abituato. La casa bruciata come luogo di rifugio. Come non luogo. Estraniata dalla realtà, dove nulla sembra raggiungerla, se non il vocio proveniente dal bar pasticceria che hanno aperto dall’altra parte della strada. Ci sembra di essere stati catapultati nell’atmosfera cupa e isolata di Lost River (2014), di percorrere la strada tra quelle case abbandonate a se stesse, in quella città ora rinnegata dall’uomo e posseduta dal trio adolescenziale di piccoli criminali, in cui i personaggi appaiono sconfitti e precari, vittoriosi solo dopo la lotta contro se stessi.
Quattro figli disorientati, un padre disoccupato,una madre triste e una nonna «arrangiata», si trovano a vivere sotto lo stesso tetto e a condividere lo stesso cibo, la stessa povertà. Dopo la morte del nonno, la nonna è andata ad abitare con loro, non per malinconia, non per solitudine, ma per supportare la madre di Fortunato. Allora ha raccontato ai nipoti di avere una grossa pietra sopra casa sua che potrebbe cedere da un momento all’altro. La precarietà dell’equilibrio. Dell’ essere. Sebbene sia solo una menzogna, si potrebbe pensare alla pietra come metafora di vita, rappresentata dalla casa, turbata dalla crudeltà e dalla sofferenza quotidiana. Si potrebbe paragonare la casa della nonna al «perturbante» freudiano, l’Heimliche, il domestico, l’intimo, che diventa Unheimliche, l’occulto, il pericolo, l’inquietante. L’immagine della pietra sulla casa, sembra richiamarci al mondo surreale del pittore belga Magritte. La pietra, simbolo di durezza e pesantezza, in Magritte si fa simbolo di leggerezza e leggiadria. Tutto appare bloccato in una condizione di immobile irrealtà. Realtà e assurdo sono resi compatibili nello spazio virtuale del dipinto, grazie all’estremo realismo delle immagini, alla loro precisione quasi fotografica.
Il libro ha un andamento dinamico che favorisce una lettura breve e veloce. È costituito da una serie di eventi e accadimenti, apparentemente scollegati tra loro, che vanno a comporre la formazione di Fortunato. Il dialetto napoletano aiuta il lettore a calarsi nei personaggi, a cogliere le loro storie, come quella di Patrizio, come un ladro. Lettura consigliata? Sí. Libro promosso a pieni voti.
Domenico