Liceo classico G. La Farina (Messina)
Docente: Antonella Lo Castro
Elena Varvello ci regala un libro spaventoso e meraviglioso da leggere tutto d’un fiato.
Elia ha sedici anni e vive a Ponte, un piccolo paese in mezzo ai boschi, con la madre Marta e il padre Ettore. È l’estate del 1978. Nel dicembre immediatamente precedente un bambino è scomparso nel nulla gettando nell’angoscia tutto il paese, che già viveva una crisi profonda dovuta soprattutto alla chiusura dello stabilimento che dava lavoro a gran parte dei suoi abitanti. Il padre di Elia è uno dei tanti che ha perso il lavoro e da quel giorno ha cominciato ad accelerare la sua deriva mentale dovuta a un disturbo bipolare.
Molti sono i riferimenti letterari che sono stati scomodati per questo romanzo, da Io non ho paura di Ammaniti a La settimana bianca di Carrère, da Raymond Carver a Stephen King, e va detto che in poche altre occasioni questo è accaduto non a sproposito come nel caso di La vita felice.
L’attrazione che di pagina in pagina questo libro esercita nei confronti del lettore si deve soprattutto alla tensione di cui abbiamo detto, all’empatia che riesce a innescare nei confronti di tutti i personaggi, perfino nei loro momenti più terribili, e al modo in cui la narrazione attrae il lettore dentro di sé, in un certo senso facendogli spazio, portandolo direttamente in scena a condividere con i personaggi i loro sguardi nel buio e a provare sulla propria pelle l’inquietudine del cercare continuamente risposte senza averne mai o quasi.
La mamma di Elia è uno dei personaggi principali della vicenda. A volte si può ritenere una donna forte ma nella maggior parte delle pagine del romanzo è semplicemente prostrata da tantissimi preconcetti e limitazioni tipiche delle ambientazioni di paese, e probabilmente ha contribuito alla disfatta del figlio.
Questo libro può essere definito «il libro delle miserie umane»; è strutturato come un enigma che pagina dopo pagina risulta sempre più articolato e ragionato, come la metafora della vita vissuta dal protagonista.
La Varvello riesce a ottenere questo effetto attraverso tre diversi modi:
Il primo è la struttura con cui costruisce l’intreccio. La due vicende principali (l’estate di Elia raccontata a partire da giugno e la notte del padre, una notte d’agosto) procedono e si avvicinano l’una all’altra a capitoli alterni (con alcune eccezioni). Il narratore è però in entrambi l’Elia ormai trentenne che può permettersi verso tutti i protagonisti di questa agghiacciante vicenda uno sguardo di vera compassione che nessun narratore esterno avrebbe potuto sostenere senza apparire ingenuo.
Il secondo è la voce. Elia non si limita a raccontare gli eventi secondo il proprio punto di vista ma attiva una profondissima immaginazione poetica: la voce e lo sguardo di Elia scivolano dentro i personaggi, attraverso la tecnica dell’indiretto libero, leggendone i pensieri e soprattutto le paure e i disorientamenti, usando anche il corsivo per dare corpo alle loro autointerrogazioni. A volte ci porta fin dentro le loro fantasie ed allucinazioni, come nel capitolo XIII, quando, nel pieno della notte di delirio nel bosco con la ragazza, improvvisamente si inscena il ritorno a casa di Ettore, la richiesta di comprensione e perdono, il miraggio della pace.
La terza, e forse a prima vista più invisibile trave portante di questo sentimento di empatia, è il silenzio e la sensazione di abbandono con cui l’intera narrazione è strutturata. L’intero racconto di Elia è continuamente costellato da congedi e silenzi. I personaggi si toccano, si sfiorano, si dicono quello che devono dirsi e poi continuamente si abbandonano l’un l’altro nel silenzio.
Molte altre cose ci sarebbero da dire, ma sicuramente La vita felice è un modo di raccontare i mostri della nostra coscienza e i mostri della cronaca di tutti i giorni in un modo diverso; è una interrogazione sul senso e sui limiti dell’amore e su quelle armi a doppio taglio che sono la perseveranza e la dedizione a esso; è un romanzo sull’amicizia; è una storia che ci dice che gran parte del senso dell’esistenza è racchiuso in quella vicenda che si dipana dal momento in cui facciamo a pezzi l’idea che abbiamo di chi ci ha dato la vita e il momento in cui quei pezzi dobbiamo necessariamente ricomporli, se vogliamo comprendere fino in fondo noi stessi; ed è, infine, anche una meditazione sulla scrittura, sulla narrazione e sull’immaginazione, su come siano e restino probabilmente l’unico modo efficace per fare i conti con noi stessi.
Alla fine ci chiediamo cosa intende Elia per «vita felice», se è sul serio la sua realizzazione totale o si tratta piú di un accontentarsi di una felicità minimalista.
Arianna, Costanza, Gloria