Silvio D’ArzoCasa d’altri

Francesco Targhetta (Conegliano, Treviso)

«Senza dubbio, uno dei migliori libri che io abbia mai letto». Sorrido, leggendo il finale perentorio con cui una studentessa di quinta ginnasio suggella la sua recensione a Casa d’altri di Silvio D’Arzo – che avevo consigliato, in alternativa ad altri due libri, come lettura natalizia. Avevo avvertito la classe: «È un racconto lungo in cui si narra l’incontro tra un prete e una vecchia in un paesino di montagna. E no: non è una storia d’amore».

Se c’è un pregiudizio duro a morire, quando si è giovani lettori, è il contenutismo, secondo l’equivalenza: libro triste = libro brutto. Da insegnante, ho sempre deciso di affrontare questo atteggiamento di petto, senza mai considerare, se non in casi estremi, il criterio dell’effetto depressivo, con la speranza, dopo le discussioni in classe, che anche lo studente più legato al culto del lieto fine («ma prof, che peso, alla fine muoiono tutti!»), si renda conto come sia la bellezza a darla, la felicità. E la bellezza può stare ovunque: persino a Montelice.

Casa d’altri ne sprigiona in continuazione, anche a una lettura in età adolescenziale. C’è il paesaggio, che rimane impresso in modo indelebile, con il suo autunno di sere viola e silenzio. C’è la storia, che, costruita sopra un esile mistero (cosa vorrà chiedere Zelinda al prete?), riesce a invischiare il lettore e a farlo sentire partecipe sia della curiosità del parroco sia della reticenza sfuggevole della vecchia, magnifico «uccello sbrancato» – tutti vorremmo conoscere un segreto, e tutti ne custodiamo uno. C’è, ancora, la bellezza dei vuoti. Alla fine la vecchia parla, e tutto, dopo la rivelazione, sembra crollare: tanto le sue speranze (e le nostre), quanto le certezze del curato (e le nostre). Ci affidiamo allora, per averne un’indicazione di senso, allo scrittore, che però ci abbandona. L’evasivo riserbo di D’Arzo negli ultimi capitoli ci lascia tra le mani soltanto il nostro dubbio di fronte a un tema che, affrontato così, non sembra neppure tanto enorme. Il perché della vita.

Se c’è un pregiudizio duro a morire, quando si è insegnanti incerti su quali libri consigliare agli studenti, è il mito dell’immedesimazione con i personaggi, secondo l’equivalenza: libro con protagonisti adolescenti = libro che interesserà agli adolescenti. Casa d’altri è un libro su due vecchi (Due vecchi si intitola, anche, uno dei racconti più belli di D’Arzo: morto, lui, a 32 anni); un libro su due vecchi a cui si affida la protesta più radicale, e perciò sempre giovane, che ci sia, l’insopportabilità verso l’idea di vita come obbedienza e sacrificio, l’opposizione all’esistenza ridotta a esecuzione di gesti uguali ed estranei («Ecco che cosa faccio io: una vita da capra»). È un libro che fa scoprire l’abisso e la dignità, il rispetto e il diritto a essere felici, e lo fa con la sobrietà cauta e felpata di chi cammina sopra un tappeto di foglie secche.

La mia speranza è che sia anche, se non soprattutto, questo stile a colpire, nella lettura, i ragazzi. Questo modo di stare al mondo. Perciò ho sorriso, leggendo il giudizio di quella studentessa. Ho capito che era vero.

Francesco Targhetta insegna materie letterarie al liceo Guglielmo Marconi di Conegliano (Treviso).