Elena Tamborrino (Maglie)
Almarina di Valeria Parrella racconta la storia di due solitudini che si incontrano, quella di Elisabetta, vedova cinquantenne che insegna nel carcere minorile di Nisida, e quella di Almarina, adolescente romena segnata dalle violenze del padre e non solo da quelle. Sono, le loro, solitudini piene: quella di Elisabetta è piena di ricordi che solo in apparenza sono latenti, ma che riemergono a mano a mano che si avvicina a quella di Almarina, che – da parte sua – è come affamata di qualcosa che riscatti la sua vita.
Elisabetta deve continuamente ricordare il suo nome ogni volta che varca i cancelli del carcere sull’isola davanti a Napoli: ha bisogno sempre di ripetersi chi è, perché quando entra lí è quasi come se perdesse la propria identità civile. È per questo che si dice «mi chiamo Elisabetta Maiorano» ogni volta che si ripete il protocollo che le consente di entrare e, una volta dentro la piccola aula senza sbarre dove insegna matematica ai giovani detenuti, ritrovare se stessa in un ruolo.
Almarina, piccola, «un nodo, un gomitolo, una scimmia con una tuta sformata di acetato addosso», ha un passato pesante da sopportare, un passato che lei quasi schiaccia, come quando sotto rete difende il punto a pallavolo e sembra volare, leggera com’è. Almarina aspetta che accada qualcosa, nutre una speranza che forse in Elisabetta può trovare spazio e consolazione, anche se la donna si sente disarmata, incapace di dare. Ma non è vero, perché lei ad Almarina regala parole e la ascolta, senza fare domande: è già tanto, perché le parole che scorrono tra loro creano un ponte. Il ponte tra Elisabetta e l’adolescente ferita segna il passaggio verso un legame d’amore, dove l’amore non è il colpo di fulmine a cui sono disposti a credere quelli che giudicano e che vedono con sospetto altre possibili forme di innamoramento, mistificandole da una parte dietro forme di paternalismo, dall’altra di ammirazione, quando non di malizia. Il legame tra l’insegnante di matematica e la sua alunna detenuta è semplice e nasce davanti al mare, mentre lo guardano, e il ricordo del magnifico nuotatore che era il marito di Elisabetta si incontra con la confessione di Almarina «Io non so nuotare»: ma a nuotare si può imparare e Elisabetta può insegnarglielo.
Questo è un romanzo emotivamente complesso, fatto di dialoghi e anche di pensieri, quelli che si rincorrono dentro Elisabetta mentre ricostruisce a piccoli pezzi il suo essere nel carcere dove lavora e fuori, dove tutto è complicato. È un romanzo complesso solo perché ci chiede lo sforzo di entrare in un luogo dove la vita è quasi sospesa, ma anche dove è tutto un brulicare di attività e di voci, di intelligenze e di corpi in movimento, un luogo che non conosciamo. È un romanzo complesso e allo stesso tempo semplice, perché arriva dritto dentro, colpisce duro, costringe a riflettere.
Elena Tamborrino insegna italiano e storia all’IISS A. Cezzi De Castro Moro di Maglie (LE).