Antonella Festa (Lanciano)
«Mi sono convinto che quando tutto è o pare perduto bisogna rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio» (Antonio Gramsci, Lettere dal carcere).
Madri, figlie e figli, scuola, educazione, relazioni. Madri imperfette, quasi madri, figli e figlie diversamente abili o diversamente figli/e, scuole di frontiera, passaggi cruciali, relazioni sghembe, straordinarie perché esulano dall’ordinarietà e la riflettono rovesciandola nel suo contrario. Sono questi i temi che attraversano la narrativa di Valeria Parrella, cui la città di Napoli fa da sfondo.
A Napoli c’è un carcere minorile, sull’isolotto di Nisida di fronte a Posillipo, il promontorio dei ricchi. A Napoli un carcere minorile e un quartiere bene si guardano e si riflettono nel mare senza che l’uno escluda l’altro, si tengono insieme come le rotaie di un binario su cui viaggia la stessa storia. Secondo il mito, l’isola e il promontorio derivano dall’amore frustrato di Posillipo, un giovane ricco, bello e aggraziato, per Nisida, donna rustica, tanto bella quanto dura e spietata. Tormentato da quell’amore non corrisposto, Posillipo si suicida gettandosi dal promontorio che ora porta il suo nome, dando cosí origine al golfo di Napoli, mentre Nisida viene trasformata nella roccia di una piccola isola, a perenne memoria della sua infausta durezza. Nisida e Posillipo, destinati a rimanere per sempre l’una di fronte all’altro, vicini ma divisi da un lembo di terra e dal mare.
Nel carcere di Nisida, in cui tiene laboratori di scrittura, Valeria Parrella ha ambientato un’altra storia d’amore, quella tra Almarina, giovane detenuta romena dal nome parlante, che sa di anima e di mare, e la sua insegnante di matematica vedova e senza figli, Elisabetta Maiorano. Almarina, dopo un vissuto di abusi e violenze, rimasta orfana di madre scappa dal suo paese e attraversando la rotta dei Balcani giunge in Italia, un paese che saprà offrirle prima la criminalità come mezzo per la sopravvivenza e poi la correzione di un istituto di pena. Elisabetta Maiorano, invece, «è una donna che ha cinquant’anni e si è sposata tardi. È successo per tanti motivi, ma soprattutto perché è andata in giro a fare supplenze. È salita a Treviso, ha imparato a bere il vino bianco alla mattina, a guidare nella neve. Ha imparato a far passare il tempo, a ballare il tango a Frosinone, ha aiutato il bidello a stendere un lenzuolo, nel fine settimana, per proiettarci sopra un film. E quando è tornata si era fatto tardi assai».
Cosí Elisabetta si ritrova, a cinquant’anni, con un lavoro che finisce per assorbirla totalmente nello sforzo di superare «la frustrazione di essere inutile» come insegnante di matematica in un carcere e il limite della madre o, meglio, delle quasi madri, cioè di quelle insegnanti ed educatrici che tentano di dare un senso a un’adolescenza che non ha modo di conoscere la vita vera. Al tempo stesso, l’attraversamento della sbarra di Nisida, il superamento di un limes che non tutti hanno il permesso di valicare, paradossalmente le offre la possibilità di lasciarsi alle spalle ogni diritto civile, ogni incombenza del quotidiano e con questo «mollare gli ormeggi da quella vita di usura che le è capitata». Quando sembra che tutto sia perduto, Elisabetta e Almarina si incontrano in un istituto penale per minorenni e proprio da lí ricominciano tutto dall’inizio.
Valeria Parrella ha scritto un romanzo che non celebra la mistica della maternità, ma racconta di solitudini e di relazioni, di reciprocità e di genitorialità sociale e lo fa con la sua prosa essenziale e lirica al tempo stesso, una prosa che sa descrivere un’atmosfera e comunicare una sensazione mettendo insieme l’attraversamento del cancello di un carcere, l’attesa del referto di una mammografia e le buste di Equitalia.
Proseguendo in un lavoro di narrazione lunga inaugurato da Lo spazio bianco, l’autrice raccoglie storie di vite reali situate ai margini del senso comune e indaga negli interstizi della cosiddetta normalità per portare alla luce donne, insegnanti, madri, figlie alle prese con lotte quotidiane che normalmente non fanno testo. In Almarina la genitorialità protagonista non è quella dei legami biologici e delle relazioni di coppia, ma è genitorialità sociale, quella permessa anche a chi è single quando si tratta di minori stranieri non accompagnati o diversamente abili, quella genitorialità che sembra non fare testo e di cui, al limite, si discute solo in termini giuridici. Per dirla con le parole del titolo di un altro importante romanzo della stessa autrice, «è tempo di imparare»: a maturare uno sguardo lungo, a perdere e poi vincere, a ritrovare la rotta, a superare le barriere tra l’io e il tu. Almarina si situa nel solco di quella letteratura che ha la forza di fornire una bussola, creare un ponte, suggerire una diversa prospettiva, aprendo nuove strade e possibilità all’esistenza.
Antonella Festa insegna Lettere al liceo classico Vittorio Emanuele II di Lanciano (CH).