Silvia Vitucci (Roma)
Specchi infedeli, ovvero Le fedeltà invisibili di Delphine de Vigan
Se, come ci ha insegnato Tolstoj, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo, la sofferenza della famiglia del dodicenne Théo e quella legata al vissuto familiare della sua professoressa di scienze, per certi versi vicine e sovrapponibili, difficilmente potranno parlarsi. Hélène, è questo il nome della professoressa, ha alle spalle un vissuto lacerante di violenze domestiche che la rende particolarmente sensibile al problema dei bambini che subiscono abusi o sopraffazioni da parte del mondo adulto.
Théo, figlio di genitori divorziati incapaci di affrontare con equilibrio l’affidamento congiunto, è un bambino particolarmente fragile, che sembra sottrarsi allo sguardo degli adulti, come se dovesse nascondere un segreto; ha dovuto imparare «in fretta a recitare il ruolo che ci si aspettava da lui. Parole misurate con il contagocce, espressione neutra, occhi bassi, non fornire alcun pretesto».
Hélène tra i suoi professori è l’unica realmente intenzionata a cercare di capirlo e aiutarlo, certa com’è che il sottrarsi allo sguardo di Théo non sia la stessa cosa rispetto al rifiuto del coinvolgimento cosí frequente a quell’età; le sembra di scorgere in Théo tracce di quelle violenze che ha vissuto anche lei da bambina: il suo vissuto da un lato la rende piú capace di altri di vedere le fragilità e i lati oscuri dei suoi alunni, dall’altro le offusca lo sguardo a causa delle proiezioni di un passato che sembra tornare a ossessionarla. E i tentativi della donna di indagare sulle cause del dolore di Théo sembrano proprio il frutto di un’ossessione.
Ma Théo difende i segreti della sua famiglia, quei lati oscuri da cui si sente profondamente minacciato e che non riesce a condividere con nessuno: parlarne anche col suo migliore amico, Mathis, equivarrebbe a un tradimento inaccettabile. Preferisce avviare, insieme a quest’ultimo, un inesorabile processo di autodistruzione, come se gli risultasse piú facile fare del male a se stesso piuttosto che distruggere il castello di inganni che la sua famiglia gli ha cucito addosso. Quando gli chiedono come vada con i genitori risponde «senza entusiasmo ma senza esitazione» che va bene.
Il dolore di Théo è visto da prospettive e sguardi diversi, attraverso la focalizzazione alternata che si muove tra lui ed Hélène (i personaggi piú riusciti), l’amico di Théo, Mathis, e sua madre Cécile.
Colpisce che la narrazione sia in terza persona quando è incentrata sul punto di vista dei due dodicenni, Théo e Mathis, per diventare in prima persona quando riguarda Hélène e Cécile. Forse tale scelta rispecchia da un lato l’acquisita capacità delle due donne di guardarsi dentro e di parlare consapevolmente di sé, dall’altro la difficoltà di capirsi ed elaborare le proprie sofferenze dei due dodicenni, il cui punto di vista è presentato di conseguenza in terza persona.
Silvia Vitucci insegna Lettere al liceo Nomentano di Roma.