Vittoria Baruffaldi (Torino)
La Storia di Elsa Morante fu pubblicato nel 1974 da Einaudi in edizione tascabile per volere dell’autrice. Vendette 600.000 copie, e si attirò un tumulto di polemiche dovute a letture politiche e ideologiche.
Ma un ragazzo di oggi cosa vi può trovare?
L’impianto è cronachistico: segue, anno per anno, il periodo che va dal 1941 al 1947, a Roma (una Roma popolare e periferica). Sono dunque gli anni della Seconda guerra mondiale e del dopoguerra: ci sono i fatti e una moltitudine di personaggi, e poi c’è la Storia – lo «scandalo che dura da diecimila anni», come lo definisce la Morante – protagonista cieca e imperscrutabile che si accanisce contro una maggioranza di innocenti. Ecco che la letteratura viene in aiuto – senza risolvere né consolare – della nostra impossibilità di capire questa storia.
Attraverso passaggi narrativi, sogni, digressioni la Morante ci offre un mezzo per riflettere su tutto ciò che accadde in quegli anni: le violenze naziste, i bombardamenti, le leggi razziali, l’apatia, i coprifuochi, l’adesione al fascismo, la lotta partigiana, il silenzio, l’eco di Hiroshima e Nagasaki, le deportazioni, le sirene, lo squallore, le diserzioni, la fame, gli sfollamenti.
È un romanzo «scritto per gli altri» (così lo ha definito Natalia Ginzburg), con un linguaggio semplice e lirico; un’«azione politica», un grido contro l’oscenità della storia. Si muovono, infatti, personaggi marginali, bambini (anche Ida era rimasta una bambina spaurita) e animali, in luoghi secondari (le botteghe del ghetto, il rifugio segreto sul Tevere, lo stanzone di Pietralata): sono quelli che subiscono la storia, che non ne capiscono la logica. Forse è tutto uno scherzo, come cinguettano gli uccellini al piccolo Useppe. Eppure ci si attacca a questi personaggi, perché c’è qualcosa di noi in ognuno di essi – la paura, la strafottenza, l’ossessione – e perché si muovono come noi in una storia senza trama e senza lieto fine. Muoiono tutti quando la guerra è finita, perché la storia va avanti, implacabile. Ma, a dispetto di tutto, rimane il bisogno di sopravvivenza, quello di Ida che aveva sempre difeso i suoi figli («era un enigma dove quel corpicino dissanguato attingesse certe riserve colossali»), quello di Useppe, da sempre proiettato verso lo spettacolo del mondo:
«I mobili e le masserizie erano case, treni. Gli asciugamani, gli stracci e anche le nubi erano dandèle (bandiere). Le luci delle stelle erano erba, e le stelle medesime erano formiche intorno a un mollichella (la luna)».
Non c’è rivoluzione ma neppure rassegnazione. Ida non vince, Useppe non vince, noi non vinciamo contro la storia che uccide, calpesta, tortura. Ma resta l’umanità, forse l’unica cosa che vince la guerra, e la storia.
«Solo di costoro, ormai, la vita è raccontabile e interessante. Per il resto poche righe in corpo minore, premesse a ogni capitolo, bastano a sbarazzarci da un funereo intreccio di assurdità da cui la vita è assente» (Cesare Garboli).
Vittoria Baruffaldi insegna storia e filosofia al liceo Spinelli di Torino.