Liceo Duca degli Abruzzi, Treviso
Classi: II A e II D linguistico
Docente: Francesco Targhetta
Perché hai deciso di scrivere un libro proprio sul dolore nell’infanzia? E perché hai scelto di rappresentarlo come un animale domestico (un cane, secondo noi)?
Una scrittrice che amo molto, Flannery O’Connor, scrisse una volta che se si sopravvive all’infanzia si ha poi materia per scrivere per tutta la vita. Credo sia per quello. Anche se in realtà questo libro è arrivato per strade tutte sue, a me ancora oggi abbastanza misteriose. Si è presentato inaspettato e ha buttato giù la porta del foglio. Mi sono trovato davanti un bambino e il suo dolore, e il suo dolore era questa specie di alleato invisibile – visibile a chi lo vuol vedere – ma presente, che gli scodinzolava accanto. E, semplicemente, mi è sembrato di un’evidenza assoluta. Il dolore non è forse come una specie di animale (un cane?, forse…) che ci corre accanto, che a volte ringhia e a volte vuole solo essere accarezzato? Non credo ci fosse altro modo per raccontarlo.
Se dovessi rappresentarlo in un altro modo, quale sceglieresti?
Quello. Credo cioè che se anche perdessi la memoria e mi svegliassi con l’urgenza di scrivere un romanzo con un sentimento come il dolore per protagonista, vedrei correre verso di me un esserino come quello che accompagna il bambino di Un bene al mondo. Davvero, non credo ci sia altro modo. Mi sembra di aver accolto qualcosa di molto più grande, di archetipico o di antico che – ma non vorrei suonare eccessivamente esoterico – si è servito del mio scrivere per manifestarsi, per prendere forma.
Perché hai deciso di non dare un nome ai protagonisti di questa storia?
Non ho pensato nemmeno un istante che i miei personaggi potessero avere un nome. Tutto, a pensarci ora che mi sollecitate sulla questione, credo si sarebbe impoverito. I personaggi si chiamano «il bambino» e «la bambina», che sono a tutti gli effetti dei nomi. Anche il paese è «il paese», ha cioè un nome. Solo che sono nomi più grandi dei nomi propri. A bordo di quei nomi ci possono stare tutti, e non solo quelli che si chiamano Martina, Luca o Benedetta.
Abbiamo notato che il rapporto tra il bambino e gli adulti, soprattutto la madre, è piuttosto distaccato. In generale i «grandi» sembrano indifferenti nei confronti dei più piccoli. Secondo te è così ancora adesso o oggi, rispetto a quando eri bambino tu, i genitori hanno un’altra sensibilità verso le fragilità dell’infanzia?
Credo sia davvero impossibile generalizzare, sia per categorie anagrafiche sia sociologiche. Una delle grandi scoperte che fa il bambino è che ciascuno ha il proprio dolore, tra i bambini come tra gli adulti. E così come tra i piccoli, anche tra i grandi c’è chi ha un dolore più mite e chi invece ne ha uno indomabile. Tutto lì. Perché? Non si sa, resta per buona parte un mistero. Oggi, se devo dire, i grandi mi sembrano pieni di paure, se mi consentite una generalizzazione, che dunque vale pochissimo. Diciamo che è un’impressione, prendetela per quello che è.
Abbiamo avuto l’impressione che il dolore, quando il bambino diventa adulto, si trasformi in qualcosa di diverso, più simile alla nostalgia. È così? Nel libro cerchi anche di capire come cambia il dolore nel corso di una vita?
Scrivere Un bene al mondo è stato per molti versi un’avventura della conoscenza. Sapevo poche cose eppure sapevo tutto: sentivo di modificarmi a ogni riga, come se avessi un’anima di plastilina. Di tanto in tanto mi fermavo e guardavo. Dunque, mi dicevo, adesso è così. Poi ripartivo. Non esiste il dolore in sé, mi sembra di poter dire, alla fine di tutto questo viaggio. Esiste il rapporto che ciascuno vi intrattiene. Per questo il dolore non ha forma se non quella che ciascun lettore gli attribuisce. E dunque credo che abbiate ragione, che si modifichino entrambi, dolore e bambino. La nostalgia credo ce l’abbia sempre avuta, quel bambino. È un sentimento che mi abita da molti anni. A volte mi intristisce, a volte al contrario mi mette una grande allegria, rende tutto sorprendente.
Alla fine del romanzo si scopre che il titolo Un bene al mondo è ricavato da una lettera di Leopardi. Perché proprio lui?
Perché non poteva che essere lui. Non conosco altro scrittore che abbia reso così sublime la metamorfosi del dolore in bellezza. Nessuno è riuscito come Leopardi a far del dolore qualcosa che riempie gli occhi di incanto e il cuore di forza.
Possiamo chiederti quanto c’è di autobiografico nella storia di questo bambino e della bambina sottile?
Certo che potete chiedermelo. Ma io non so rispondere. Se non dicendo che tutto quello che ho scritto stava dentro di me da molti anni, probabilmente da quando ero bambino. Poi si è impastato con le parole che ho trovato per dirlo, ed è nato qualcosa che ha sorpreso me per primo. Se mi chiedete se quel bambino si chiama Andrea, ad ogni modo, dico di no, ne sono certo. Se mi chiedo se quel bambino sono io, dico sì. Anche quell’adulto. E anche quest’uomo che vi scrive da dentro un caffè di una cittadina tedesca chiamata Bamberg, proprio mentre arriva il mio cappuccino, e per questo vi saluto. Grazie per il tempo che mi avete dedicato.