Liceo Nomentano, Roma
Classe: IV L
Docente: Silvia Vitucci
Il 28 novembre 2016 diverse classi del liceo Nomentano di Roma, grazie alla preziosa collaborazione della responsabile del Punto Einaudi di via Bisagno Simona Pedicone, hanno avuto modo di incontrare Nadia Terranova e di discutere con lei del suo romanzo d’esordio, Gli anni al contrario. L’autrice si è mostrata molto disponibile a rispondere ai dubbi dei ragazzi e molto interessata alle loro opinioni personali; l’intervista si è svolta in una piacevole atmosfera di curiosità reciproca.
Riguardo la trama e i personaggi, quanto è frutto di invenzione e quanto invece trae ispirazione da storie e persone reali?
Diciamo che rappresenta la prima curiosità rispetto a questo libro: magari uno legge nella quarta di copertina che sono nata nel ‘78 a Messina, o soprattutto legge l’ultima pagina, o semplicemente nel corso del libro si chiede quanto di Nadia ci sia in Mara e viceversa. Evidentemente è un romanzo autobiografico, non basato sulla mia vita quanto sulla vita dei miei genitori: il romanzo nasce proprio per raccontare la storia di Giovanni, che è molto simile a quella del libro. La parte politica è un po’ diversa, ma non molto. Lo scopo in tutto quello che scrivo è tenere sempre aperto un canale tra le mie storie, la mia vita, la mia infanzia, quello che mi è successo e la scrittura. È il mio modo di scrivere e non credo che ce ne sia un altro, nel senso che credo che uno scrittore debba attingere sempre a ciò che lui per primo crede di avere vissuto, per comprendere anche fatti ed episodi lontanissimi da sé.
In questo caso l’autobiografia si fa più evidente perché c’è una coincidenza di città e di date che non poteva essere diversamente, quindi è quasi dichiarato, depositato alla fine del libro. Eppure, nonostante questo, è stato un libro difficile da scrivere, perché ho usato la terza persona e mi sono calata nei panni di due personaggi che sono due ventenni di quarant’anni fa, cercando di raccontare senza giudicare, quindi senza né idealizzare né denigrare. Avrebbe potuto essere un libro recriminatorio, oppure idealizzatore – un libro che dica ah, mitici quegli anni, stupendi! – invece io ho scelto una strada che era quella di mostrare, senza interferire con queste due direzioni, che secondo me fanno male alla letteratura; quando si scrive per idealizzare vengono fuori dei romanzi un po’ posticci, brutti, in cui ci sono buoni e i cattivi, invece quando si scrive per denigrare vengono fuori romanzi lamentosi, lagnosi. Quello che a me interessava era capire che cosa era successo, e io lo potevo fare solo attraverso la strada del raccontare, del ricostruire. Infatti, se ci fate caso, la mia voce è prima molto distaccata e via via più vicina, perché sappiamo poi che sono gli occhi di quella bambina che hanno registrato e che raccontano qualcosa di cui nessuno ha mai voluto parlare.
Dovete immaginare la letteratura come un pozzo, in cui lo scrittore va a prendere tutto quello di cui gli altri non vogliono parlare. A volte mi hanno chiesto di questo libro «Ma tu non c’eri, te l’hanno raccontato?» «Ma tu non c’eri, hai chiesto?» No, non c’era bisogno. C’è un pozzo che è il pozzo della memoria – e tutti voi se chiudete gli occhi ce l’avete, anche sulla vostra infanzia – dove si depositano le cose che ci sono successe; quello che fa uno scrittore è immergersi, perché la scrittura è un corpo a corpo con quello che gli è successo. E non è un metodo psicoanalitico, perché non cerchi una ragione, un colpevole: è, come dire, esistenziale. Si tira fuori, si analizza, bisogna vedere le tue paure, rivedere i fantasmi, e poi pian piano raccontare. E se devi dire che qualcuno si è comportato in maniera ignobile lo devi scrivere, senza per questo dire che è stato ignobile, cioè devi giudicare i singoli comportamenti e le singole azioni e lasciare che i personaggi vengano fuori in modo tridimensionale. I grandi personaggi della letteratura sono quasi tutti personaggi controversi: il protagonista di Delitto e Castigo, oppure Zeno, sono personaggi ambigui: non ci sono quasi mai dei supereroi nella letteratura, ma sempre persone che zoppicando hanno provato a esistere.
Quindi sì, c’è autobiografismo, ma c’è molto di più che semplici date e semplici luoghi. Anche perché uno si deve chiedere: ma questa cosa che mi è capitata ha un interesse, ha un senso per tutti, oppure magari è una cosa che si vuole scrivere soltanto per se stessi? Sarebbe legittimo, scrivere per sé stessi è una cosa bella e utile, ma non crea un libro: un libro è creato nel momento in cui ti fai delle domande più ampie, fai uscire questa storia dal cassetto e la esponi al rischio che, dopo esserti così scorticato e aver parlato di una cosa così intima, arrivi qualcuno e liquidi con un giudizio frettoloso quello che tu hai scritto. Però devi rischiare, la devi mettere lì e lasciare che faccia la sua strada.
La domanda che mi sono fatta era questa: una storia così intima, personale, che ha vissuto lontana dai grandi centri della storia come Roma, Milano (che hanno avuto maggiore importanza negli avvenimenti degli Anni Settanta) ha un interesse? Ho pensato di sì, proprio perché era un libro sulla gente comune. Quasi tutti quelli che avevano tra i quindici, trent’anni in quel periodo dicono «ah sì, è la mia generazione»; c’è un forte senso di appartenenza, anche se quelle persone magari non hanno fatto niente, non erano terroristi, giudici, non erano dei leader politici. Però avete presente le foto di grandi manifestazioni? C’erano veramente tanti, tutti, e mi sembrava che la storia di quegli anonimi non fosse stata raccontata.
Aurora è consapevole delle problematiche di Giovanni, ma sembra assumere un ruolo quasi completamente passivo nel loro rapporto. Perché? Quali sono state le cause che hanno portato alla rottura del loro legame?
Su questa passività di Aurora c’è qualcuno che non è d’accordo? Coraggio, non c’è una sola risposta, Aurora ha varie dimensioni.
Non è riuscita a tenere a sé Giovanni, ma non riuscire è un’altra cosa rispetto ad essere passivi. In quanto essere umani dobbiamo anche accettare di non avere il controllo tutti i giorni anche sugli altri esseri umani. Questa è una cosa molto difficile e molto dura da accettare nel corso di una vicenda sentimentale. Lei avrebbe potuto fare altre cose? Forse sì, forse avrebbe potuto andare a riprenderlo, ma visto il carattere complesso di Giovanni forse non avrebbe lo stesso ottenuto nulla – anzi, forse l’avrebbe solo allontanato di più, prima e irrimediabilmente. Di certo lei ha un orgoglio nei confronti di suo marito dietro il quale si trincera, aspettandosi che sia lui a tornare a casa, quindi assume comportamenti un po’ fragili e sotterranei, apparentemente. Però Aurora non è neanche passiva, perché fa una scelta (anzi, più di una), fa una scelta lavorativa molto forte. È come se, con un certo pragmatismo, lei si rendesse conto a un certo punto di non poter fare più niente per la sua situazione matrimoniale; non riesce ad abbandonare Giovanni, perché è ancora innamorata, ma si rende conto che non lo potrà ricondurre alla ragione, non con i metodi che conosce. Per molti motivi: era la prima volta che si affacciava il problema della tossicodipendenza in Italia e quindi non c’erano casi precedenti a cui fare appello, ed erano anche i primi anni in cui si poteva divorziare, quindi non c’erano famiglie precedenti da guardare come modello. Era tutto nuovo.
Aurora è una ribelle, ma in realtà è una ragazzina, non può fare tutto e quindi fa una scelta, criticabile, sicuramente difficile da capire: decide di proteggere sua figlia e di andare dritta verso la sua stabilità lavorativa, perché su quello sente di poter avere un controllo, di poter fare delle cose che abbiano una relazione di causa ed effetto. Si ostina a perseguire il lavoro dei suoi desideri, sente che ce la farà, e ce la fa; ma sente che fare la stessa cosa con Giovanni non l’avrebbe portata da nessuna parte, quindi a un certo punto si arrende, ma siccome lo ama ancora, siccome è fragile, siccome esiste questo carattere della fragilità in lei, resta con un occhio vigile e uno no. Le situazioni della vita sono sempre molto complicate e non è sempre possibile pensare di fare una scelta per ottenere un risultato: possiamo fare una scelta perché sentiamo che è quello che vogliamo, però il risultato potrebbe non essere raggiunto. Noi non controlliamo tutto. E’ difficile da accettare, quando si cresce.
A cosa è dovuta la mancanza di dialogo dei due personaggi principali che il più delle volte si limitano a riflessioni personali l’una sull’altro?
Ottima domanda! Innanzitutto io penso che, in qualità di scrittrice de Gli anni al contrario, il concetto della mancanza di dialogo andrebbe esteso e approfondito, poiché in questo libro il problema non riguarda soltanto Giovanni e Aurora come coppia, ma anche le loro rispettive famiglie. Sono presenti seri problemi di dialogo, non so se é nota a tutti la scena in cui la madre di Giovanni preferisce tenere per sé i suoi pensieri e i suoi turbamenti, piuttosto che condividerli con il figlio, anche se riguardanti problemi di spessore come la decisione di mandare Giovanni in comunità oppure la notizia della morte prossima del padre. Tutti questi piccoli dettagli fanno capire quanto sia difficile comunicare, parlare ed esprimersi, e quanto sia veritiera la frase «si può vivere tutta la vita con una persona che non si conosce veramente», poiché in momenti di crisi capita, come esseri umani, di aprire se stessi a persone totalmente sconosciute, solo per il fatto che queste ultime si dimostrano presenti e vicine in un momento particolare della vita: ciò è successo a Giovanni ed Aurora, che si sono trovati reciprocamente, aprendo se stessi l’uno all’altra e pianificando progetti finché, arrivati ad un certo punto del loro rapporto, non sono stati in grado di far evolvere ciò che avevano costruito insieme, dopo anni e anni, e non sono stati in grado di superare momenti critici e difficili. Scrivendo questo libro, ho lavorato molto sul concetto dell’assenza di comunicazione, anche pensando, e qui posso rispondere alla seconda parte della vostra domanda, al modo di vivere di due persone, che condividono un qualcosa, in assenza di dialogo: una coppia odierna che vive con il cellulare in tasca risulterà molto diversa da una coppia del passato, poiché la comunicazione, ai nostri giorni, avviene in tempi brevi e veloci, grazie a SMS o grazie a Whatsapp e ai Social Network, mentre nei lontani anni Settanta non vi erano questi mezzi rapidi, che facilitano o meglio rendono più veloce la comunicazione, ma, per comunicare, si scrivevano lettere, che richiedevano tempi d’attesa molto diversi e particolarmente lunghi.
Le piacerebbe scrivere un libro in cui i protagonisti siano i figli di Aurora?
Tutti i romanzi che scrivo hanno come protagonisti i figli di Aurora e Giovanni; sicuramente lo sarà quello su cui sto lavorando, ma lo sono tutti in realtà, perché per me questo è un po’ il romanzo originario e quindi tutto ciò che scrivo deriva da quello.
Lo stile del libro è di certo particolare per la decisione di non dare spazio ad ampie e dettagliate descrizioni quanto ad una notevole immediatezza; quali sono le ragioni sottese a questa scelta?
Le descrizioni nei libri sono importanti e sono belle quando hanno un senso narrativo, non quando servono a fare sfoggio. Ad esempio L’addio ai monti di Manzoni è una pagina bellissima, perché sta raccontando un fatto oltre che ad avere una musicalità bellissima: è il momento in cui Lucia viene portata via dalla sua casa ed è costretta ad andare in convento e quindi lascia i suoi luoghi. La descrizione del paesaggio non è una pura descrizione, ci sta raccontando un fatto, un allontanamento e quindi un’azione. È quindi una pagina poetica. Inoltre ci sta raccontando un sentimento che è la nostalgia. Le descrizioni per me vanno fatte nei romanzi quando servono, non tanto quando servono a chi scrive a raccontare com’è un posto, perché va bene che il lettore lo immagini attraverso pochi dettagli e lo riempia con la sua immaginazione. Una bella descrizione per me, è quella che ci trasporta da una parte all’altra e ci traghetta fisicamente da un posto all’altro e anche da uno stato all’altro del libro, come L’addio ai monti. Di per sé la descrizione è l’anti narrativa, in un romanzo è difficile mettere una descrizione come cornice, perché rimane un ornamento e per me non è utile. Ma se io la inserisco con questa sapienza narrativa e la faccio diventare un fatto non sto togliendo niente al suo fermarsi; allora è bella. Nel libro ce ne sono alcune su Messina che io ho messo perché secondo me raccontavano qualcosa, per esempio quella della fata Morgana oppure la descrizione dei palazzi molto brutti; Messina è una città ricostruita dopo il terremoto del 1908, quindi una città urbanisticamente molto brutta, anche se in una posizione geografia stupenda e da molti è soltanto attraversata per entrare in Sicilia o per uscirne; quindi ho inserito la descrizione per dare un senso di decadenza che i miei personaggi vivono. Una pagina più lunga e più dettagliata su Messina in questo romanzo a me da scrittrice non serviva, e quindi non l’ho messa
La morte del Fascistissimo vuole simboleggiare anche il venir meno della diffusione dell’ideologia fascista o è solo funzionale allo sviluppo della vicenda?
No, diciamo che non aveva questa pretesa, è soltanto funzionale all’estinzione dei padri con cui questi due ragazzi stanno crescendo e con cui poi devono fare i conti. Così come comunque tutto il libro non vuole decretare fallimenti o vittorie, ma vuole raccontare una possibile strada delle cose che accadono.
Qual è il legame tra la citazione dei versi di Majakovski nel finale e il periodo che Aurora sta attraversando?
Il pane, la pace, la primavera… Che cosa vuol dire? Se nomino il pane, rimando immediatamente ad una cosa materiale che viene usata come cibo, come sostentamento, legato perciò proprio alla sussistenza; se io nomino la pace, dico qualcosa di tutto sommato comprensibile, anche se un po’ meno rispetto al pane poiché meno concreto, dato che la pace può avere delle sfumature, però tutti ci intendiamo: la pace è l’assenza di guerra, il conflitto che si sopisce. Se io dico «la questione della primavera», pongo la primavera come questione. Tutti noi strabuzzeremmo gli occhi e ci verrebbe da dire: «Ma la primavera non è un problema?! O forse si?! In che senso?» Se le prime due questioni sono risolte, la questione della primavera ci pone un problema come lettori: che vuol dire la questione della primavera? Quelli di noi che hanno seguito come sottotraccia del libro un’inquietudine di Giovanni difficilmente classificabile hanno capito che in lui c’è qualcosa di distorto e non raddrizzabile, a cui non si può dare un motivo ben definito. Giovanni è uno di quei personaggi che nasce marchiato, che ha una questione irrisolvibile e difficilmente comprensibile; la questione della primavera è proprio questo: noi possiamo aver risolto la questione del pane, perché tutto sommato le cose si stavano mettendo in un determinato modo, e anche la questione della pace, perché si stava uscendo dagli anni di piombo, ma non quella della primavera che andava risolta ad ogni costo ma che purtroppo non si risolverà mai. Infatti Giovanni muore in primavera e Aurora cerca di trovare un modo per rinascere. È per questo che ho scelto questi versi, che mi sembravano adatti a raccontare la fine del libro, perché alla fine di tutto resta il sapore di qualcosa che forse non si poteva risolvere diversamente ed è inspiegabile.