Liceo scientifico Salvemini, Bari
Classe: IV G
Docente: Monica Iusco
Nella destra teneva sette stelle. Appunti (molto) sparsi su Piazza Fontana. Il processo impossibile
«Non sarò mai abbastanza cinico / da smettere di credere / che il mondo possa essere migliore di com’è / ma non sarò mai neanche tanto stupido / da credere / che il mondo possa crescere / se non parto da me» (Brunori Sas).
Nel silenzio generale del 12 dicembre 2019, a cinquant’anni dalla strage di Piazza Fontana, Rai Uno manda in onda una «docu-fiction forse esteticamente non perfetta» (per citare M. Piras su Le parole e le cose) che fornisce, però, una ricostruzione ben pensata, esatta e lineare di un processo impossibile lungo trentasei anni (1969-2005). Le scene e gli interventi di storici e testimoni sono inframmezzati dalla lettura di Patmos, una meravigliosa poesia che Pier Paolo Pasolini ha pubblicato nel 1971 in Transumanar e organizzar, la cui genesi, però, risale al giorno dopo la strage. Quei versi, scritti dal geniale autore del durissimo Io so del ’74, prendono il loro titolo dal nome dell’isola greca dove l’apostolo Giovanni, secondo la tradizione, scrisse l’Apocalisse.
L’Apocalisse pasoliniana è una poesia idealmente sconfinata, densa di dolore e di sgomento, che nomina, una per una, le vittime della strage. Quei versi lunghi contengono le loro brevi vite, strappate al mondo con disumana violenza.
Quei nomi, quegli uomini, pace non ne avranno mai. Ad oggi, nessuno è stato condannato ufficialmente per quel sangue versato. Nel 2005 sono stati tutti assolti dalla Corte di Cassazione. I neofascisti di Ordine Nuovo Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Giancarlo Rognoni, condannati all’ergastolo nel giugno 2001, non sono stati ritenuti colpevoli del reato. La Cassazione ha tuttavia affermato che la strage di piazza Fontana fu realizzata dalla cellula eversiva di Ordine Nuovo capitanata da Franco Freda e Giovanni Ventura, non piú processabili per il principio ne bis in idem: erano stati già assolti, con formula piena, nel 1987 (e Freda si era rifatto una vita, nel frattempo, fondando anche un partito neofascista, Fronte Nazionale, negli anni ‘90). Con quella sentenza alle famiglie fu delegato il pagamento delle spese processuali.
Giovanni Arnoldi, Giulio China, Eugenio Corsini, Pietro Dendena, Carlo Gaiani, Calogero Galatioto, Carlo Garavaglia, Paolo Gerli, Luigi Meloni, Vittorio Mocchi, Gerolamo Papetti, Mario Pasi, Carlo Perego, Oreste Sangalli, Angelo Scaglia, Carlo Silva e Attilio Valè (tutti presenti!) non avranno mai giustizia. E questo non dobbiamo dimenticarcelo, nonostante le loro storie siano andate perse, rimbalzate e confuse fra i faldoni degli interminabili processi che hanno viaggiato fra Milano, Roma, Bari e Catanzaro.
A distanza di cinquant’anni da Piazza Fontana, credo sia giusto, prima di tutto, ricordarci di loro. Dei loro volti, dei loro corpi dilaniati avvolti nel tricolore, delle loro tenaci, splendide famiglie, mosse da una nobile sete di giustizia, di verità e democrazia.
Sento il dovere di ricordare, a riguardo, con immensa gratitudine e ammirazione, da giovane cittadina di questo Paese, l’instancabile impegno civico di Francesca Dendena, figlia di Pietro, Presidente dell’Associazione Piazza Fontana, che fino all’ultimo respiro si è battuta perché la memoria di suo padre e la memoria della strage sopravvivessero intatte nei cuori e nelle menti di ogni generazione di italiani. In un discorso del 2009, alla presenza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ha ricordato con grande lucidità, seppur indebolita dalla malattia che l’ha portata via qualche anno dopo, tutte le vittime della furia stragista degli anni di piombo e il grande coraggio dei giudici, fra cui Gerardo d’Ambrosio, che guidarono le buone inchieste, poi vanificate dalla Cassazione.
Franca Dendena voleva che la testimonianza dei familiari delle vittime potesse «trasformarsi in storia conosciuta e divulgata, approfondita senza spirito di parte». La verità, il suo grande sogno: «solo sulla verità si può costruire il futuro di un Paese», diceva.
Ed è sempre in quell’occasione, nella seconda Giornata della Memoria delle vittime di Piazza Fontana che, con la voce rotta dall’emozione, ricorda il giorno dei funerali, nel freddo dicembre del ’69 – la folla sul sagrato del Duomo, quei volti mesti e addolorati: «Pensavo che mai piú una cosa simile sarebbe potuta avvenire nel nostro paese». Il giorno dei loro funerali, Milano, come la ricorda la signora Dendena, era questa qui.
Il silenzio assordante di quest’immagine si può ascoltare nei numerosi documentari in giro per il web. È un colpo al cuore, quel silenzio. È il silenzio di una città intera che si inchina alle vittime e prega pace. Erano trecentomila le persone che si misero in ascolto, in Piazza Duomo, quel giorno.
«Una folla immensa di cittadini, di lavoratori, di studenti» – cosí la descriveva l’«Avanti», il 16 dicembre. «I monumenti di piazza Duomo e piazza Cordusio s’erano trasformati in immensi grappoli umani. Qualcuno s’era appollaiato dentro alle nicchie della facciata del Duomo». Una città lacerata, sanguinante, che piangeva i propri morti, e si augurava, allo stesso tempo, di ripartire, nel nome della giustizia. Un dolore infinito e una risposta precisa: Milano resiste – c’è. Il sindaco di Milano, Aldo Aniasi – uno che la guerra l’aveva fatta, da partigiano – si disse, in un discorso del 15 dicembre, molto orgoglioso della manifestazione dei milanesi, «compatta, del loro modo fermo e civile di dire no alla violenza, all’eversione, a chi conta sulla paura per travolgere le libere istituzioni democratiche e repubblicane». Milano aveva trovato la forza, in un momento difficile, di «affermare i valori della libertà contro la tirannide. La risposta spontanea, composta e silenziosa di tutti i milanesi era stata tale da scoraggiare chi eventualmente possa aver vagheggiato piani eversivi e reazionari». La Costituzione, tanto amata – i suoi valori da difendere, riconosciuti in quella marcia silenziosa di cittadini rispettosi, uniti da un forte senso comunitario, vicini alle vittime, per non dimenticare.
Nella bellezza e nella potenza di queste immagini splendide e commoventi, che tanto hanno da insegnarci, oggi, su quanto sia ancora importante unirci, come comunità di cittadini, per difendere i valori democratici su cui il nostro Stato si fonda, emerge quel che di buono esiste nel magma di orrore che vortica, furioso, attorno alla vicenda di Piazza Fontana.
È proprio questa, forse, l’anima del libro Piazza Fontana. Il processo impossibile di Benedetta Tobagi (figlia dell’indimenticabile Walter, giustiziato nel 1980 da un commando della Brigata XXVIII Marzo), che scrive per ricostruire i fatti, per cercare la giustizia perduta nel labirinto dei processi, ma anche per far emergere con chiarezza figure, istanti, pezzi di storia luminosi, di cui sono protagonisti uomini giusti, coerenti, che hanno lottato – alcuni anche perdendo la vita – per la verità.
La Tobagi, Ph.D in Storia presso l’Università di Bristol, con Piazza Fontana. Il processo impossibile ha scelto di tuffarsi, con grande coraggio, nell’abisso dei molto-poco-accessibili atti processuali, delle inchieste, delle testimonianze, e di confrontarsi con una mole titanica di materiali, per regalare al pubblico un’opera di ricerca accurata, minuziosa, paziente (60 pagine, alla fine del libro, sono dedicate alle Note, a testimonianza dello straordinario lavoro di ricerca dell’autrice). L’approccio della Tobagi, «laico e illuminista» (come scrive Raimo su «Internazionale» il 9 gennaio 2020) fa emergere le luci della storia, «una sommatoria di lotte, e anche di conquiste, parziali, incomplete, ma significative. La sommatoria di sforzi di tante figure quasi dimenticate, che hanno fatto la differenza con il loro lavoro. Quel che resta, insieme ai tanti tasselli di verità, è, forse, soprattutto questo», come scrive fra le conclusioni.
Nonostante l’illuministico, ottimistico tentativo dell’autrice, decisamente degno di nota e d’onore, Il processo impossibile è un libro dalla cui lettura non si viene fuori indenni. Pagina dopo pagina ti si rompe qualcosa dentro, ti si spezza un po’ il cuore. Ti vergogni, molto. Vorresti chiedere scusa tu al posto di quei cattivi. Parola dopo parola, documento dopo documento, si accumulano le domande, i dubbi, i perché.
Perché è morto Giuseppe Pinelli? Come è morto, chi l’ha ucciso? Chi ha mentito? Il commissario Calabresi era davvero in un’altra stanza o, come ha sostenuto l’anarchico Valitutti, non si è mai allontanato dalla stanza in cui si stava svolgendo l’interrogatorio di Pinelli? Chi c’era in quella stanza? Si può riaprire il caso Pinelli, come ha proposto l’anno scorso Adriano Sofri su «Il Foglio»? Perché è stato subito urlato a gran voce il nome di Pietro Valpreda, il «mostro», la «bestia», finito su tutte le prime pagine nel giro di qualche ora? Qual è stato il ruolo dei giornalisti in questa storia? Esisteva, poteva esistere un codice etico, una sorta di deontologia professionale che li potesse fermare dallo sbattere in prima pagina l’immagine di un uomo che non sapeva nemmeno di essere colpevole? Che ruolo ebbe la controinformazione? Gli intellettuali avrebbero potuto fare di piú, come auspicava Pasolini scrivendo Io so ma non ho le prove, nel ’74?
Ma, soprattutto – perché lo Stato ci ha mentito? Lo Stato (democratico, giusto, libero) a cui i trecentomila di Milano chiedevano giustizia: lo Stato ci ha voltato le spalle. Perché?
Ecco, leggere Benedetta Tobagi in quarto liceo significa aprire gli occhi sulla storia del nostro Paese. Significa arrabbiarsi, piangere, quasi, in un misto fra rabbia e dolore, di fronte all’orrore delle stragi e all’incompiuta giustizia. Parlare ancora di Piazza Fontana, dopo cinquant’anni, è un dovere civico, morale. Dialogare coi ragazzi, nelle scuole, significa educarli al rispetto e alla conoscenza del passato. Perché se è vero che i figli di chi ha perso la vita quel 12 dicembre 1969 devono «spogliarsi dall’abito di vittima e indossare quello di testimoni», come sostiene il figlio di Giovanni Arnoldi, è anche vero che ascoltarli, per noi giovani, oggi, è una necessità. Perché nessuno dimentichi, perché tutti conoscano l’orrore della morte.
Nelle parole di Brunori Sas scritte all’inizio di questo soliloquio assolutamente personale e inutile c’è la mia speranza di un futuro migliore. Io ho diciassette anni, fra tre mesi ne compirò diciotto. Quest’anno acquisirò, ufficialmente, per la Repubblica Italiana, diritto di voto. Ma la mia coscienza politica, quella che guiderà la mia mano quando sarò chiamata ad apporre un segno su una scheda elettorale, domani, non si svilupperà, magicamente, allo scoccare della mezzanotte del giorno del mio diciottesimo compleanno, come nella piú tradizionale delle fiabe. La mia coscienza politica è figlia della Grande Storia che conosco, ed è figlia di questo incontro-scontro denso di rabbia e tristezza con la storia di Piazza Fontana.
Riascoltando le parole di Francesca Dendena, figlia di Pietro, fra le lacrime, ho trovato il senso del mio dovere di cittadina. «La democrazia non è un bene acquisito per sempre», diceva lei, «ma un ordinamento fragile, che va amato e custodito, poiché una democrazia non è mai al riparo dalle tentazioni autoritarie. È nostro dovere non cedere all’amarezza, e continuare a lottare per la democrazia, nell’inseguire il sogno di un Paese fondato sulla verità e sulla giustizia.
Solo cosí questo mondo potrà crescere, solo partendo da noi, solo mettendoci in cammino, nella vita di tutti i giorni, con coraggio e determinazione.
Per realizzare questo sogno, però, è necessario che chi sa parli, come sperava Pasolini. Chi sa e ha le prove, ci parli. Ci guidi, e non ci lasci soli. Benedetta Tobagi, con il suo straordinario, illuminante lavoro di ricerca (e tanti, come lei, prima di lei) non l’hanno fatto – a lei il mio piú sentito grazie, a nome di una generazione che vuole crescere senza dimenticare, per essere migliore.
Giorgia