Liceo L. Ariosto, Ferrara
Docente: Stefania Borini
Scrittura creativa: ispirazioni da L’Arminuta di Donatella Di Pietrantonio
Adalgisa è uscita dalla stanza senza dire una parola, col viso di chi è ferito e sa di aver ferito. Non la rividi piú. Accettai il suo aiuto finanziario anche per Adriana, ma l’amore con cui guardava la foto di suo figlio aveva reciso quell’esile legame che ancora ci univa. Quando il fine settimana tornavo al paese con mia sorella c’era mia madre naturale ad attendermi al pullman. Ora capisco che anche il suo cuore era dilaniato come il mio. La miseria, l’ignoranza e la vita che aveva vissuto l’avevano modellata in tutto ciò che era. Ora l’avevo accettata e perdonata.
Lorenzo, IV M, indirizzo Scientifico
Mentre ci dirigevamo verso casa di Adalgisa ripensavo a come mi ero comportata nei giorni precedenti; forse perdonarla per ciò che era successo era la cosa meno plausibile da fare, ma il sentimento che mi legava a lei era troppo forte per essere represso. Arrivati davanti a casa dell’altra mia madre, istruii Adriana su come comportarsi durante quel pranzo di Pasqua tanto poco desiderato. La zia mi salutò con un bacio, poi conosciuto il mio nuovo «fratellino» e il suo nuovo compagno, il pranzo incominciò. Durante l’intero pomeriggio ero combattuta tra rabbia (nei confronti di quella donna che mi aveva accudito fino a poco tempo prima) e affetto che continuavo a provare per lei, nonostante mi avesse messa da parte per farsi una nuova vita.
A poco a poco l’affetto stava prendendo il sopravvento, non so cosa mi stesse facendo cambiare idea: credo lo sguardo di quel piccolo bambino che le riempiva gli occhi di gioia. In un attimo fu tutto chiaro: avrei accettato i soldi di mia «madre» e avrei pensato anche all’educazione di Adriana. Glielo dovevo perché era stata l’unica ad avermi dato il suo affetto senza neanche conoscermi.
Quella era la mia vita, amare due madri e accettare il mio passato. Poi c’era Vincenzo: il sentimento che mi legava a lui era indissolubile, grazie a lui avevo imparato ad amare anche la mia nuova famiglia, che alla fine dei conti era la mia vera famiglia. Quando lasciammo la casa di Adalgisa presi per mano Adriana e mi diressi verso la spiaggia, ci sedemmo sul bagnasciuga e guardando il sole tramontare pensammo a Vincenzo.
Stefano, IV M, indirizzo Scientifico
Avevamo ancora molta strada, ma alle fermate del trasporto urbano si ostinava a voler proseguire a piedi. Arrivate davanti a quel cancello ancora cosí familiare, mi soffermai a guardare attentamente il giardino: adesso era piú curato, ma ai miei occhi appariva sempre lo stesso. La siepe leggermente piú alta e l’erba tagliata di fresco. Solo che non mi apparteneva piú.
Alzai il dito per suonare il campanello, ma poi lo riabbassai. Adriana guardava rapita le onde del mare e non faceva caso ai miei occhi lucidi. Perché Adalgisa non aveva scelto di includermi nella sua nuova famiglia? Cosa cambiava, cosa c’era di diverso tra me e il suo nuovo bambino? C’è differenza tra un figlio proprio, di «pancia» e uno avuto dopo, per amore? E perché sarei dovuta entrare come ospite in una casa che appena un anno fa era la mia?
Le urla che provenivano dall’interno della casa mi distrassero. Dalla finestra si intravedevano Adalgisa e il suo nuovo compagno.
«Non capisco perché ti ostini a ritenerla tua figlia, quando non lo è! Hai solo fatto un’opera di carità a prenderla con te, ma ora hai un figlio tuo, è a lui che devi badare! Non dovevi nemmeno invitarla qui». Cosí le diceva quell’uomo. Lei pareva tacere. Era quello che pensava anche lei? Io ero solo un’opera di carità?
«Le voglio bene, l’ho cresciuta ma so che non è figlia mia, e non metterò mai lei prima di Francesco e di te. Però dovrebbe essere già qui…» Adalgisa rivolse lo sguardo fuori dalla finestra, e mi vide, immobile come una statua di sale. Sapeva che avevo sentito tutto. Mi voltai e vidi Adriana che mi guardava, seduta sul marciapiede. Sentii i passi di Adalgisa avvicinarsi, ma non mi voltai subito.
«So che hai sentito» iniziò lei a dire «Ma vedi, è complicato…» La interruppi, fissandola: «Non è complicato. Se tu fossi stata davvero mia madre, mi avresti amato senza riserve, come una figlia naturale. Ma tu non sei mia madre, anzi, non sei proprio una madre: una madre non fa differenze, diventa madre nel momento in cui cresce un figlio, che sia suo o meno. E i tuoi soldi non colmeranno mai l’assenza di una madre».
Adalgisa aprí la bocca per dire qualcosa, ma subito la richiuse. Nei suoi occhi si leggeva che mi dava ragione.
«Quando sarai pronta, io sarò qui» disse, poi si voltò e rientrò in casa. Quelle parole avevano prodotto un silenzio assordante, aleggiavano nell’aria prive di significato.
«Andiamo a casa» mi disse risoluta Adriana.
«Quale casa?» le chiesi io, quasi implorante.
«La nostra. Non importa quale, importa che siamo io e te, insieme. Dove saremo noi sarà sempre casa».
Maria Giulia, II B, indirizzo Classico
Erano le sei del mattino: durante tutta la notte avevo pensato a cosa dire ad Adalgisa, quando l’avrei vista la mattina seguente. Mi immersi in mille dubbi: se mi voleva ancora, se mi voleva bene, se io le volessi ancora bene. E lo zio? Avevo deciso di fingermi malata, ma alla fine mi ammalai veramente. Finalmente riuscii ad addormentarmi. Mi risvegliai in fretta, sentendo il rumore delle sue scarpe con il tacco e della porta che sbatteva.
«Ciao Adalgisa» dissi.
«Che ci fai qui?» mi rispose.
«Ho bisogno di risposte, sono stanca di essere l’unica a non sapere niente, ne ho il diritto».
«Hai ragione. Adesso sediamoci però, sei pallida, ti sei ammalata?»
Non risposi, ci sedemmo. Mi raccontò tutto: il motivo per cui mi avevano presa: Adalgisa non riusciva ad avere bambini e io, nella mia famiglia, ero solo un peso. Mi sentivo sempre piú trattata come un oggetto, che quando pareva e piaceva loro, si passavano di mano in mano. Continuò, dicendo che con lo zio litigava spesso di questo, cosí avevano deciso di restituirmi: Adalgisa non voleva continuare a fingere di essere la madre che non era. Lo zio ora non viveva più con Adalgisa. Questo mi ha fatto veramente male, mi sono sentita per la prima volta piú appartenente alla mia vera famiglia, che a loro due.
«Vuoi venire a cena da me domani?» ha concluso con un nodo alla gola. Io accettai, ad una condizione: che venisse anche mia madre.
La sera seguente ero agitata all’idea che mia madre e Adalgisa si sarebbero incontrate. Adalgisa ci accolse molto affettuosamente e mia madre rispose accennando ad un sorriso.
Ci sedemmo a tavola e parlammo soprattutto dei miei studi: io ero costantemente distratta, pensando al motivo di quell’invito. Eravamo ormai al secondo, quando suonò il campanello: era lo zio. Rimasi stupefatta, non capivo cosa sarebbe successo. Lo zio si sedette silenziosamente e poi cominciò a parlare; non prestai molta attenzione alle sue parole, guardavo il suo sguardo, stanco, spento.
«Io e Adalgisa» disse «abbiamo pensato che dovresti essere tu a scegliere, abbiamo sbagliato a mentirti sulla malattia di tua zia e su tutto; dicci tu cosa vuoi fare». Io non sapevo che dire, fino a poco tempo prima volevo solo tornare da loro, ma iniziai a pensare ad Adriana, a Giuseppe, a Vincenzo. Erano gli unici che non mi consideravano come un’estranea, come una di troppo. Mi sentii stringere la mano: era mia madre, la mia mamma. La guardai negli occhi e vidi in lei tutto l’amore che non mi aveva ancora dato ma che era pronta a darmi. Guardai Adalgisa, guardai lo zio, ricordai tutti i momenti belli avuti con loro, ma guardavo anche al presente, a come mi avevano trattata, alle bugie dette, non capivo.
«Zio, Adalgisa, io vi perdono, mi avete fatto soffrire tanto, tutti voi, ma io sono l’Arminuta, sono tornata e voglio vivere con coloro ai quali appartengo». Non ebbi niente da aggiungere.
Io e mia madre salutammo lo zio e Adalgisa. Ero felice, quella parola, mamma, aveva un luogo, era una certezza. Ci guardammo, mi ha sorriso e poi insieme siamo tornate a casa, quella casa che non era piú estranea, sconosciuta: era casa mia, è la mia famiglia.
«Aspettavamo una signorina e ne sono venute due. Buongiorno sono Guido». Ci ha stretto la mano con un gesto vigoroso e piacevole.
Il programma per quella domenica era di andare in spiaggia, per mostrare al bambino il mare, la sabbia. Prima di partire però decisi di mostrare ad Adriana dove un tempo dormivo. Una volta entrata nella stanza riconobbi solo il mio letto. I giocattoli, i libri, i poster erano scomparsi, sostituiti da navi in bottiglia collezionate dal padre del bambino.
«Ti piace?» fu tutto quello che riuscii a udire. Non risposi. Finalmente avevo capito dalla mia prima madre che non era quella la mia casa. Avevo capito chi ero veramente e da dove provenivo. Senza rispondere nè a Guido nè ad Adriana, la quale, vedendomi titubante, mi aveva chiesto come stavo, presi per mano mia sorella e la tirai in un abbraccio verso di me. Adriana mi sorrise e scoppiammo a ridere. Penso di non essere mai stata cosí legata a una persona, come mi sentii con lei in quel breve ma intenso momento. Ci incamminammo verso la spiaggia semideserta, io e Adriana due passi avanti a Guido e Adalgisa che teneva in braccio il piccolo Francesco. Una volta arrivati mi resi conto assieme a mia sorella che eravamo quasi nello stesso punto di quel giorno con Vincenzo. L’abbiamo sentito per un attimo fratello e poi siamo ritornate alla realtà.
Nonostante fosse solo mezzogiorno pranzammo: da quando era nato il bambino tutto era cambiato. Adriana fece diversi apprezzamenti sul cibo preparato da Adalgisa; io invece rimasi in silenzio a osservare i movimenti che portavano le vongole e il pane alla bocca di Guido e di quella mia prima madre ormai sconosciuta. Rimanemmo un po’ sotto l’ombrellone. Francesco nella carrozzina, Adalgisa e Guido distesi su due lettini staccati tra loro, io e Adriana l’una vicina all’altra con lo sguardo dritto verso il mare. Mi volsi poi verso di lei e ammirai i lineamenti del suo viso. Era incredibile quanto ci assomigliassimo e come io potessi accorgermene solo in quel momento. Ci alzammo e corremmo verso il mare.
Venimmo sommerse dall’acqua e dai riflessi proiettati dal sole. Chiusi gli occhi. Li riaprii. Tutto quello che vedevo adesso era un soffitto azzurro, blu e verde. Mi alzai dal letto sorridendo a me stessa e a quello che ero stata, che sono e che sarò sempre: l’Arminuta.
Elisabetta e Valentina, II B, indirizzo Classico
Sentivo di non riuscire ad amare nessuno che non fosse lei, e lei si meritava molto piú amore di quanto ne meritassi io, che non me ne facevo niente. L’unica persona a essere stata sincera, autentica, brutale. Non ritenevo piú giusto avere tutto. Un tutto che non era mio. Adalgisa non mi doveva nulla, e in fondo sarei stata anche io come Adriana se non fossi stata data in prestito e poi restituita. Non volevo piú vivere cosí.
«Torniamo a casa Adriana» dissi, staccandomi dall’abbraccio. Avevo la spalla e i capelli bagnati dalle sue lacrime.
Tornai a casa con Adriana, il viaggio fu silenzioso ma dolce. Le tenevo la testa sulle mie gambe e le accarezzavo i capelli. Mia madre non fece molto caso a noi. Probabilmente aveva visto gli occhi rossi e le palpebre gonfie per il pianto e pensava che avremmo badato l’una all’altra. Ci addormentammo presto, nella nostra posizione di sempre. La caviglia di Adriana era l’unica cosa che mi era familiare. Uno spazio cosí piccolo che mi dava conforto. Piú vero del letto su cui giacevamo. La mattina dopo mi svegliò il pianto di Giuseppe, che smise poco dopo. Adriana dormiva ancora. Riflettevo.
«Torno a casa con te, Adriana, questa doveva essere la mia vita. In un modo o nell’altro studieremo, cresceremo insieme e non ci lasceremo mai» pensai. Sapevo cosa fare. Quella mattina tornai a casa della Signora Bice e preparai i bagagli. Dissi che mia madre stava male e che aveva bisogno di aiuto in casa. Avrei saltato la scuola per un paio di giorni. Presi quanto piú mi era possibile. Soprattutto quello che serviva per la scuola e me ne andai. Per sempre. Avrei vissuto la realtà che mi spettava, senza soccombere. Avrei combattuto per diventare qualcuno. E avrei insegnato a combattere anche ad Adriana.
Dopo aver smaltito il nostro pasto camminando, siamo rientrate a casa. Adriana continuava a parlarmi del pranzo che si era concluso da poco, con innata allegria. Sembrava tutto tranquillo, quando la madre, appena rientrata a sua volta, ci ha avvisate di una telefonata che aspettava solo noi. Il telefono pubblico dal quale sarebbe arrivata era quello posto sulla via che portava alla taverna. La soglia oltrepassata per entrare è stata varcata in un lampo, per uscire di nuovo e correre verso la cabina telefonica.
Il telefono ha squillato poco dopo il nostro arrivo e con ancora il fiatone ho preso la cornetta tra le mani, ma Adriana se n’è impossessata strappandomela. Non potevo sentire chi le stava parlando o cosa le stesse dicendo, ma non ha detto una parola fino a quando non ha posato la cornetta al suo posto. Un attimo di assordante silenzio ci ha attraversate, fino a quando Adriana non mi ha stretto forte con le sue esili braccia. Singhiozzava e non capivo se di gioia o di dolore, ma tutto è stato piú chiaro quando mi ha sussurrato che sarebbe venuta con me in città, presto o tardi. Non sapevamo quando, ma la speranza di poter stare insieme non ci faceva avere paura del tempo.
Sara, IV M, indirizzo Scientifico
Dopo aver fatto il bagno su quella spiaggia, dove eravamo andate tempo prima con Vincenzo, ci asciugammo e, visto che stava diventando tardi, decisi di accompagnare Adriana alla fermata dell’autobus, dandole prima dei vestiti e qualcosa da mangiare per tutta la famiglia. Dopo averla salutata decisi di cambiare strada per tornare dalla signora Bice; cosí presi la strada piú lunga.
Mentre camminavo pensavo a cosa era successo, a quel disastroso pranzo, e non riuscivo a capire il motivo dell’abbandono dei miei «genitori». Avendo sentito solo la storia di Adalgisa, avrei voluto sentire la storia anche di mio «padre». Cosí decisi di chiamarlo al telefono; cercai una cabina telefonica e provai a chiamare, ma non rispose. Lo chiamai piú volte quel giorno, anche dalla casa della signora Bice, ma non rispose mai, cosí mi rassegnai, finché un giorno, dopo circa una settimana, tornando a casa, lo trovai in piedi nel salotto. Ero rimasta immobile sulla porta non sapendo cosa fare, non sapendo se abbracciarlo, se salutarlo o se ignorarlo; cosí per fortuna, fece lui il primo passo. Mi salutò con voce spezzata, come se stesse per mettersi a piangere e poi mi tese la mano; io però non la afferrai subito; arrivò intanto la signora Bice a portarci del tè e a chiedere di accomodarci; mi misi dalla parte opposta del tavolo rispetto a quella in cui si era seduto lui. Dopo qualche minuto lui cominciò a parlare, a dire che il mio abbandono non era stata una sua scelta e che Adalgisa aveva deciso tutto. Disse anche che il giorno in cui mi aveva portata dai miei genitori, Adalgisa lo aveva cacciato di casa. Da quel giorno veniva in campagna ogni volta che riusciva e mi osservava da lontano, mentre uscivo da scuola.
Mentre mio padre parlava, io cominciai a piangere: gli dissi che mi era mancato. Quel giorno rimase a cena con noi, e la mattina seguente mi accompagnò scuola. Ricominciammo a vederci quasi tutti i giorni e il nostro rapporto stava tornando quello che era sempre stato. Un giorno mi invitò per la prima volta nella sua nuova casa; io vedevo la sua agitazione e la sua ansia, cosí tentai di confortarlo. Quando entrammo in quella casa capii subito che stava male: la casa era in disordine, ma un disordine che aveva cercato di organizzare a modo suo. La casa era un monolocale quindi molto piccolo e non c’era spazio per due persone.
Restai in quell’appartamento tutto il pomeriggio finché a mio padre arrivò una telefonata; eravamo seduti a guardare la televisione e per rispondere uscí dalla porta, tenendola socchiusa: probabilmente perché non voleva che io sentissi. Quando rientrò stava piangendo, ma non erano lacrime di tristezza: erano lacrime di gioia. Non capendo, gli chiesi il motivo di quel pianto e lui cominciò a spiegare che pochi giorni prima c’era stata la corsa dei cavalli di Agnano; non conoscendo la località non riuscivo ancora a capire, cosí mi spiegò che era una specie di lotteria e se il cavallo su cui avevi puntato i soldi vinceva la gara, vincevi tutti i soldi puntati anche da altre persone sui cavalli che avevano perso. Ancora non capivo e lui urlando di gioia mi disse che il suo cavallo aveva vinto e che quindi avevamo vinto moltissimi soldi. Per dirmelo usò «abbiamo vinto» non «ho vinto» e per la prima volta, dopo molto tempo, capii che lui teneva veramente a me, non come Adalgisa.
Il giorno dopo mi chiamò e mi disse di fare le valigie. Quando arrivò quel giorno aveva tre biglietti dell’aereo in mano: erano tre biglietti per Londra, solo andata. Mi disse che ci saremmo trasferiti. Sul momento non ho esultato perché pensavo ad Adriana: non volevo lasciarla in campagna da sola, senza di me, anche perché le avevo promesso che l’avrei fatta trasferire in città. Mio padre, che aveva notato la mia tristezza, mi chiese se avevo guardato bene i biglietti; li guardai meglio e poi chiesi perché fossero tre, se noi eravamo solo due. Cosí, abbracciandomi, mi rispose che il terzo era per Adriana. Gli saltai con le braccia al collo, felicissima, e dopo aver salutato e ringraziato la signora Bice e Sandra, passammo a prendere Adriana che era stata avvertita dalla madre. Cosí partimmo per Londra e non tornammo per un lungo tempo. Tornammo solo per il matrimonio di Adriana che, anche se sposava un londinese, voleva celebrare la cerimonia con la nostra famiglia. Pochi giorni dopo il matrimonio, io ripartii per Londra perché avevo ottenuto una cattedra all’università di Oxford e proseguii la mia vita come avevo fatto in quegli ultimi anni.
Francesca, III Q, indirizzo Scienze umane
Tutti questi ricordi mi hanno segnata, ho pensato che ripercorrere la mia storia mi avrebbe potuta aiutare dove sono ora. La parola incertezza si è infiltrata nella mia vita come un amante, che piano piano occupa un posto sempre piú ingombrante nella vita che sta cambiando, fino ad occultare il resto. Sí perché se ci sono da dare delle colpe, si punta sempre il dito su chi ha tradito, senza pensare che non è solo colpa sua. Se l’amante avesse rifiutato, il tradimento ci sarebbe comunque stato? Alla fine non ho una risposta alle domande senza senso che mi occupano la mente. La sensazione di essere sbagliata, la causa di tutto il mio male, non mi ha ancora abbandonata del tutto. Probabilmente era inevitabile ciò che mi è capitato, ma in fin dei conti, penso che gli adulti siano dei grandi egoisti. Se due genitori crescono un bambino per tanti anni, per quale motivo mi hanno restituita? Non sarei forse stata una buona sorella per il mio nuovo cugino?
Penso inutilmente a tutte queste paranoie, perché per me un genitore non è solamente a livello biologico, ma a livello morale. Un padre e una madre sono questo per noi solo se li consideriamo tali. Se nessuno me lo avesse detto, io non mi sarei mai accorta che i miei zii non erano i miei veri genitori. La sola cosa bella di essere approdata in una vita disperata, dove la povertà e il lutto hanno bussato troppo presto nelle nostre vite, era Adriana. Il mio piccolo fiore selvatico, delicato e forte, come un incrocio tra una margherita e una rosa. Delicata e feroce con le spine sempre pronte a proteggerla. La sua forza mi ha accompagnata lungo tutta la mia storia, e tutt’ora ho bisogno di lei. Mi sono decisa a chiamarla in un piovoso pomeriggio di primavera. Sapevo che lei sarebbe stata felice di vedermi. Ci siamo messe d’accordo per vederci a casa mia per cena.
Quando è arrivata, il mio livello di ansia era ormai alle stelle. Era sempre magra, con i tratti spigolosi che mostravano quanto fosse dimagrita. Stare lontana da me non le faceva bene, si era affezionata a tal punto da sviluppare un amore morboso e pericoloso. L’ho invitata ad entrare, le scarpe sporche di fango stonavano con il biancore abbagliante dei pavimenti, ma non me ne curavo. Ero cosí felice di vederla. L’ho abbracciata forte, incurante del fatto che fosse visibilmente arrabbiata con me. Non era cambiata in questo, ma come quando eravamo piccole si è sciolta fra le mie braccia: «Com’è che hai aspettato tanto a chiamarmi?», ha chiesto con espressione risentita.
«Sono incinta». Un silenzio ingombrante si è fatto strada nella stanza. Sapevamo entrambe che non ero pronta per una cosa cosí grande.
«Che pensi di fare?» mi ha chiesto seria.
«Non lo so. Non ho il coraggio di abortire, ponendo fine ad una vita che non ha nemmeno avuto il tempo di iniziare. Mi sono rivolta a te perché so che tu sola mi puoi capire».
«Dallo a me», mi ha detto lei, con quel modo diretto che mi ha sempre spiazzata. Non avrei mai pensato di prendere in considerazione quest’ipotesi. Avrei davvero potuto dare mio figlio a mia sorella? Lei era sicuramente molto piú adatta di me come madre, e sapevo che mio figlio non sarebbe mai stato in cattive mani. Ma cosa ne sarebbe stato di un bambino costretto a vivere nella miseria? Le sue ossa si sarebbero spezzate sotto il peso delle responsabilità ancora prima di riuscire a ispessirle. Nella mia mente non riuscivo ad accettare il fatto che stavo davvero considerando di condannare mio figlio allo stesso destino crudele che avevo avuto io.
«Vieni a vivere qui da me», le ho proposto di punto in bianco. Il suo volto si è illuminato, non vedeva l’ora che le facessi una proposta del genere. Avevo voglia di trovare in lei la stessa complicità di quando eravamo bambine. Già sognavo un futuro migliore, per me e per mio figlio. Se lei mi fosse stata accanto, niente sarebbe andato storto. L’ho guardata negli occhi, in quello sguardo innocente e sincero vedevo la mia felicità, la mia bolla di serenità in un’infanzia rubata.
«Da ora in poi staremo insieme?» mi ha chiesto preoccupata.
«Insieme».
Mio figlio avrebbe avuto una vita diversa, forse non da tutti, ma diversa dalla mia. Lui si sarebbe sentito amato, lui una famiglia l’avrebbe avuta.
Lisa, IV Q, indirizzo Scienze umane
Sentivo di non riuscire ad amare nessuno che non fosse lei, e lei si meritava molto piú amore di quanto ne meritassi io, che non me ne facevo niente. L’unica persona a essere stata sincera, autentica, brutale. Non ritenevo più giusto avere tutto. Un tutto che non era mio. Adalgisa non mi doveva nulla, e in fondo sarei stata anche io come Adriana se non fossi stata data in prestito e poi restituita. Non volevo piú vivere cosí.
«Torniamo a casa Adriana» dissi, staccandomi dall’abbraccio. Avevo la spalla e i capelli bagnati dalle sue lacrime.
Tornai a casa con Adriana, il viaggio fu silenzioso ma dolce. Le tenevo la testa sulle mie gambe e le accarezzavo i capelli. Mia madre non fece molto caso a noi. Probabilmente aveva visto gli occhi rossi e le palpebre gonfie per il pianto e pensava che avremmo badato l’una all’altra.
Ci addormentammo presto, nella nostra posizione di sempre. La caviglia di Adriana era l’unica cosa che mi era familiare. Uno spazio cosí piccolo che mi dava conforto. Piú vero del letto su cui giacevamo. La mattina dopo mi svegliò il pianto di Giuseppe, che smise poco dopo. Adriana dormiva ancora. Riflettevo.
«Torno a casa con te Adriana, questa doveva essere la mia vita. In un modo o nell’altro studieremo, cresceremo insieme e non ci lasceremo mai» pensai. Sapevo cosa fare. Quella mattina tornai a casa della Signora Bice e preparai i bagagli. Dissi che mia madre stava male e che aveva bisogno di aiuto in casa. Avrei saltato la scuola per un paio di giorni. Presi quanto piú mi era possibile. Soprattutto quello che serviva per la scuola e me ne andai. Per sempre.
Avrei vissuto la realtà che mi spettava, senza soccombere ad essa. Avrei combattuto per diventare qualcuno. E avrei insegnato a combattere anche ad Adriana.
Klaudija, II B, indirizzo Classico
Spin – off: Il fratello senza nome
Mi trovavo in cucina a lavare i piatti sporchi del pranzo, quando mia madre ci presentò mia sorella. Non sapevo come comportarmi: ero imbarazzato, impaurito, non ho avuto neanche il tempo di presentarmi che Adriana le prese la mano e la portò subito in camera per sistemarla. Mi ricordo ancora la sua espressione, quella di una ragazza impaurita, spaesata. Alla vista di noi fratelli quasi si mise a piangere. Dopo una vita da figlia unica doveva condividere tutto con altri 5 fratelli.
Mi chiamo Antonio e sono il terzo di sei figli. Nella mia famiglia sono il figlio piú disponibile: d’altra parte o diventavo come quello là, Vincenzo, il piú grande, o diventavo come mia sorella Adriana.
Di notte mi intrufolavo nella camera delle mie sorelle e le guardavo. Stavo zitto nella speranza che non mi scoprissero e le osservavo. Una volta mentre lavavo i piatti, mi si avvicinò lei, mia sorella. Mi sembra ancora strano chiamarla sorella. Incominciammo a parlare di tutto e io da buon fratello le dissi qualche trucchetto per non farsi sgridare dalla mamma. Lei si mise a ridere e vidi che aveva il mio stesso sorriso. Ogni tanto passeggiavamo insieme per le strade del paese; a volte veniva anche Adriana, quando la sua pigrizia non vinceva.
Quando l’Arminuta se ne dovette andare dal paese per frequentare il liceo in città mi rattristai: in casa non c’era piú la gioia di quando c’era lei. Adesso ogni settimana ci incontriamo: prendo l’autobus e vado da lei. Lei mi dice cosa ha fatto a scuola, io le racconto quello che è successo a casa, se ci sono novità, se Giuseppe sta crescendo, se mamma e papà hanno ricominciato a parlare dalla morte di Vincenzo.
Porto sempre la sua gioia dentro di me, anche adesso che sono piú grande.
Rachele, III Q, indirizzo Scienze umane
Il destino è una parola da vecchi, non puoi crederci a quattordici anni. E se ci credi, lo devi cambiare. È vero che non sei uguale agli altri, nessuno ha la tua forza. Dopo quello che è successo stai in piedi, pulita, ordinata, con la media dell’otto al primo trimestre. Noi ti ammiriamo, – ha detto guardando un attimo la figlia come in cerca di una conferma scontata. – Non immagini quanta fatica mi costa rimanere pulita e ordinata, come dici tu, studiare.
«Incinta, era solo incinta», ripetevo fra me e me. E io che avevo temuto che fosse irrimediabilmente malata, che avevo pensato avrei potuto vederla morire… Ma certo, ora che sapevo la verità, non potevo che sentirla già morta, estremamente lontana. La mia vita ormai era altrove, lontana da lei e dalle sue finzioni di madre premurosa. Tutto finito il passato? Facevo fatica a credere ai miei stessi pensieri, eppure quella era la cruda e inaccettabile verità.
I mesi passarono, gli anni si susseguirono. Diventai una giovane donna, laureata alla Facoltà di Medicina con il massimo dei voti. Riuscivo persino, col mio nuovo lavoro, a sostenere le spese dei miei, perennemente instabili in mezzo ai problemi della vita. Piú niente mi riportava ad Adalgisa. E il tempo, gli amici, mio figlio: tutto mi aveva ricompensato del dolore del disorientamento provati quando ero ancora fragile e succube delle paure. Di quella madre che madre non era mai stata, soltanto un ricordo sbiadito.
«Dottoressa venga», mi disse l’infermiera del Pronto Soccorso dell’ospedale in cui lavoravo. «C’è un caso disperato: una donna investita ha riportato lesioni gravissime, presumo che non ce la farà». Avvolta da cuffia e camice mi avvicino a quell’esile creatura inerme. Agonizzante e piegata, si raccoglie in una posizione fetale. Indifesa, la guardo e d’improvviso un lampo le attraversa l’iride, fatica a parlare, balbetta fra rumori e parole; l’infermiera le mette la flebo e io mi preparo per l’operazione. «L’Arminuta, l’Arminuta, eccoti qui, ti hanno ritrovata, mia Arminuta…»
«Straparla la donna, è già in un avanzato stato confusionale. Dice cose incomprensibili, non ce la farà». In quel momento gli occhi, il timbro della voce, il nome: era lei, era proprio Adalgisa. Qualcosa si sciolse in me e mi dissi che se anche lei non era stata una madre, io sarei comunque stata una figlia, sua figlia. «Preparate l’anestesia» dissi, «è ora».
Alessandro, II B, indirizzo Classico
[La protagonista e Adriana escono dalla dimora di Adalgisa, dopo il pranzo trascorso con la donna e suo marito]
33.
Ho aspettato con impazienza la domenica mattina, mi sono vestita scegliendo accuratamente cosa indossare e Sandra mi ha aiutata a truccare gli occhi con ombretto e mascara. Non ero sicura del perché considerassi cosí importante apparire carina, in fondo avrei solo pranzato con quella stessa persona che per oltre dieci anni avevo creduto essere mia madre. Ero soddisfatta di come mi presentassi, elegante e raffinata, l’abbigliamento curato mi ricordava le giornate estive in cui accompagnavo Adalgisa in città a fare compere.
Adalgisa ha telefonato presto, impaziente di venirmi a prendere. Ho accettato, e nello stesso momento ho sentito suonare il campanello e la signora Bice rispondere al citofono: doveva essere Adriana. Le avevo chiesto di accompagnarmi, non volevo andarci da sola. Appena l’ho vista sono rimasta sorpresa. Indossava un vestito a quadretti, le solite scarpe, ma accuratamente ripulite. I capelli erano sciolti e lucenti. Ci siamo guardate, ha cercato la mia approvazione.
«Mamma c’ha provato a farmi diventa’ carina».
«Adriana, sei perfetta. Ricordi cosa devi dire? Sei venuta in autobus e non mi avevi avvertita». Mi ha abbracciata. «E ricorda di parlare in italiano, per piacere. Mangia con le posate e mastica a bocca chiusa. Comportati bene se vuoi che Adalgisa ti aiuti a venire in città».
Dal suono deciso del campanello capimmo che era ora di andare, e che in macchina probabilmente non avremmo trovato Adalgisa. Siamo scese in cortile tra le primule profumate e abbiamo raggiunto una macchina nera, mai vista prima. Un uomo con una camicia bianca seduto al volante ci ha accennato un sorriso e ci ha invitate a salire.
«Aspettavo una signorina e ne sono venute due, io sono Guido, piacere di conoscervi» disse sempre sorridendo.
«Mia sorella mi ha fatto una sorpresa, spero non sia un problema».
«Aggiungeremo un posto, non preoccupatevi. Adalgisa è con il bambino, mi ha domandato di venirvi a prendere, con questo sole è meglio evitare lunghe camminate».
Proseguimmo il breve viaggio, divertite dall’umorismo del nuovo compagno di Adalgisa; anche Adriana sembrava essere già a proprio agio. Arrivati alla casa, non potei fare a meno di notare quanto fosse diversa. Il prato era curato, l’erba era soffice, e calpestarla sembrava un dispetto. Adriana rimase incantata dal dondolo a righe rosse e bianche, coperto di cuscini che apparivano morbidissimi, e ammetto che fu difficile distoglierla dal provarlo. Lo scatto della serratura, la porta si aprí. Adalgisa ci salutò dal portone, la mia bocca era secca e il cuore batteva forte nel petto.
«Ragazze, venite», disse Adalgisa. «Tu devi essere Adriana, che piacevole sorpresa che tu sia venuta oggi, accomodatevi!»
Siamo entrate in sala da pranzo e Guido ci ha accompagnate a tavola. Adriana sembrava sconvolta dall’argenteria e dalla tovaglia di stoffa preziosa, ma allo stesso tempo era divertita e sembrava essere a suo agio in quel nuovo ambiente. Ogni tanto mi assentavo dalla conversazione, si parlava del paese, della nostra famiglia, del cibo e di altre mille cose. Io avevo caldo, ero agitata dal pensiero che qualcosa potesse andare storto. Temevo che quel momento potesse finire. Adalgisa ha servito l’antipasto e in seguito la portata principale, il cibo era ottimo e l’atmosfera ormai rilassata. Improvvisa, dalla stanza da letto, una sottile voce ha chiamato mamma.
«Si è svegliato in anticipo». Ha detto Adalgisa alzandosi. Fu subito di ritorno, con in braccio un bimbo dai capelli folti e biondi e due grandi occhi marroni.
«Vi presento Francesco. Spero non vi dispiaccia che lo tenga con noi per il resto del pranzo, fatica a riaddormentarsi se nessuno lo culla».
Prima che me ne accorgessi Adriana teneva il bambino in braccio, si era offerta di cullarlo con movimenti leggeri, e per qualche minuto restammo in silenzio divertiti da quell’immagine, fino a quando il bambino non riprese sonno. Guido e Adalgisa guardavano Adriana ammaliati. Riflettendoci oggi penso che fossero stupiti di come una ragazzina avesse già tanta esperienza. Ma loro non sapevano quanto fosse dura la vita in paese. Disgustata da quel ricordo, feci un atto di coraggio e dissi: «Adriana e io vorremmo abitare in città. La vita in paese è insopportabile ed entrambe vorremmo proseguire gli studi qui. Insieme».
Guido e Adalgisa si guardarono con uno sguardo d’intesa, e sorrisero. Sapevano qualcosa che noi non conoscevamo ancora.
«Adriana» esordí Guido, «è una fortuna che tu sia venuta qui oggi. Infatti…»
Guardai Adriana, aveva gli occhi sbarrati e non vedeva l’ora di ascoltare oltre. «Noi vorremmo chiederti se, insieme con tua sorella, foste disposte a tornare in questa casa, e a vivere con noi come una nuova famiglia. Il piccolo Francesco ha bisogno di attenzioni, e non vede l’ora di avere qualcuno con cui giocare».
«In piú saremmo felici che la vostra carriera scolastica proseguisse senza intralci, anche vostra madre è d’accordo. Tesoro», si rivolse verso di me «torneresti a casa?»
34.
Un tonfo. Mi svegliai di soprassalto. Era chiaramente notte fonda. Sandra aveva sbattuto il pesante gesso contro la spalliera del letto. Realizzai che tutto quello che avevo vissuto era stato solamente un lungo e irrealizzabile sogno, mi rigirai nel letto e con il volto ancora rigato dalle lacrime mi addormentai.
Luisa, II B, indirizzo Classico
La tenue luce magenta si perdeva all’orizzonte, nascondendosi tra i tetti smussati delle case circostanti. Era da poco calato un leggero strato di nebbia. L’intero paesaggio si sbiadiva delicatamente, avvolto da quel denso alito indistinto. Guardando oltre il vetro opaco, col mento tra gli avambracci sul freddo davanzale di marmo, mi sembrava d’aver di fronte il mio subconscio. Era esattamente così che mi sentivo, in quel momento: smarrita, immersa in un vortice di dubbi e domande oscure, ottenebranti. Piú guardavo quel pomeriggio morire nella sera, piú capivo che il momento della verità si stava avvicinando, lento ma costante, nella quiete alienante della nebbia.
Ho sempre sentito dire che negli istanti che precedono la morte, nell’infinitesimale attimo che accompagna l’ultimo respiro, la vita ti congedi con un breve sentore di onniscienza, di ricordo di ciò che la sorte ti ha dato in dono.
Ebbene, la mia era una situazione molto diversa, ma mai mi sono sentita piú vicina alla fine di quel momento, guardando i respiri veloci rincorrere i timidi astri che si affacciavano dove il viola del cielo diventava petrolio. Ero sull’orlo del baratro, colpita da un confuso sciame di frammenti luminosi, che come brandelli di foto animate mi travolgevano lo spirito, riversandomi sui timpani scrosci perforanti di brusii sovrapposti. Sentivo calde e salate carezze sulle gote, uscivano dagli occhi ma sapevo che venivano dal cuore. Ero a tanto cosí dal lasciarmi andare, tanto cosí dal chiudere gli occhi e prepararmi a ricevere la piccola spinta che mi avrebbe lanciato a capofitto in quella spirale infinita che mi attirava come una melodiosa sirena. Stavo avendo un attacco di panico. Le nocche bianche stringevano il bordo del cornicione, il mento affondava tra le clavicole e il respiro irregolare esprimeva un senso di impotenza tale da farmi sentire nuda, inerme di fronte al disegno cosmico che mi aveva voluto al centro di una cosí fitta e pungente ragnatela di sofferenze. Le voci si avvertivano in un rombo sempre piú forte. Spingevo cosí violentemente le palpebre da vedere piccole macchie violacee allargarsi sul nero dominante.
Aprii gli occhi.
Provavo una strana sensazione. Le immagini cessarono, i suoni fecero posto a un silenzio assordante, irreale. Davanti a me si estendeva il mare, il paesaggio era apocalittico. Posai lo sguardo sui piedi nudi, che affondavano nella sabbia grigia.
«Ehi! Che guardi? Muoviamoci che poi voglio il gelato!»
Davanti a me Adriana correva sul bagnasciuga, spensierata ed entusiasta, come quando l’avevo accompagnata per la prima volta. Feci per avvicinarmi, ma appena mossi il primo passo il suo corpo si fece d’ombra, dissolvendosi nel vento impetuoso. Iniziai a correre nella sua direzione gridando, ma ero completamente afona. Solo il sibilo delle intemperie dava voce a quel mondo pietrificato.
Mi sentivo osservata. Voltai lentamente lo sguardo, sentivo un forte calore all’esterno dell’anca sinistra. Mi volsi indietro nell’istante in cui la mia mano si chiuse sul cuore d’oro incandescente della collana che tenevo in tasca. Il vento mi soffiò sul viso, socchiusi gli occhi d’istinto. Era un vento diverso da quello che mi sferzava la pelle, era caldo e delicato, pregno d’un odore che conoscevo bene.
Quando distesi le palpebre contratte, l’ombra snella di Vincenzo mi fissava a meno di cinque passi dal mio naso. La ferita alla gola squarciava i contorni ombrosi del collo, da cui fuoriusciva una luce azzurrognola che rischiarava le iridi languide. Nonostante il fallimento di poco prima, separai le labbra tremanti per dire qualcosa, ma lui portò l’indice al naso. Indicò lo specchio d’acqua con un cenno del capo, simile a quelli che mi rivolgeva quando lo sorprendevo a fissarmi di sbieco la mattina presto. In un attimo mi era affianco, lo seguii finché le piante dei piedi non si bagnarono d’acqua salata. Avvertii un altro piccolo sbuffo d’aria calda. Anche lui ora era scomparso. Con titubanza diressi lo sguardo sul magmatico riflesso di bambina che proiettavo sulle onde. Quasi non mi riconoscevo piú: mi sembrava di essere ringiovanita di qualche anno, indossavo il piccolo vestito di seta lilla che mi era stato regalato per compleanno da… Eccola. Eccoli. Come angeliche creature emerse dai fondali, i visi dei miei vecchi genitori comparvero sorridenti al fianco della bambina felice, componendo un quadretto famigliare che mi fece indietreggiare scossa. Quelle erano le persone che mi avevano abbandonata, che mi avevano lanciato addosso la secchiata gelida di verità nascoste, distruggendo la mia vita con la stessa facilità con cui molti anni prima avevano deciso di cambiarla irrevocabilmente. Adalgisa mi fissava smagliante.
«Che c’è tesoro? Che aspetti? Siamo già tutti a tavola, il cibo si fredda. Vieni»
Avevano avuto tante occasioni per far sí che quell’invito venisse accettato a braccia aperte. Troppe. Perché tornare dove chiaramente non si è benvoluti? Perché illudersi ancora, subire con mestizia altro dolore inutile? No, avevo già sofferto troppo per permettermi altri sé e ma. Mio padre mi chiamò a sé con la mano. Entrai nel mare fino alle ginocchia, non mi sentivo bagnata. Un ultimo addio se lo meritavano, nonostante tutto. Mentre mi avvicinavo a loro mi sentivo serena, sapevo cosa fare.
«Così non…»
«No, mamma»
«Capisco».
Il cielo si spaccò in due e in un istante un tornado di lamenti e rimbombi furiosi mi piovve addosso, mentre la terra era scossa dal terremoto. In fibrillazione buttai lo sguardo sul mare e in un istante la mano di Adalgisa uscí dall’acqua prendendomi per il polso, portandomi con sé nell’abisso.
«Ehi! Ehi!» Mi svegliai distesa a terra, ai piedi della finestra. Su di me Adriana mi accarezzava i capelli, le sue grida mi arrivavano ovattate, distanti. D’istinto portai la mano alla tasca. Il freddo della superficie dorata fu una delle piú belle sensazioni che avessi mai provato.
«Tutto bene? Ti sei messa a urlare come una pazza e sei svenuta. Mi sono spaventata tantissimo».
«Adriana.. vuoi venire con me?»
«E dove?»
Correvamo sotto la luce della luna, senza guardarci indietro, tenendoci per mano. Poco dopo giungemmo allo spiazzo di terra secca, perforata dai punteruoli dei tendoni degli zingari. Ogni cosa emanava luce bluastra e nell’aria si libravano sciami di lucciole. Un uomo corpulento era alle prese con un fuocherello morente, rigirando le braci con una pinza di ferro arrugginito. Alzò il viso illuminato con un sorriso mesto.
«Siete voi», Vincenzo doveva avergli raccontato tante cose, nei suoi giorni d’assenza.
«L’avete voi..vero?» chiesi flebilmente. Adriana mi abbracciò la schiena in silenzio: «Vieni».
Entrammo nella tenda principale e ci investí un intenso odore di spezie. Un lembo di tenda aperto e mal dipinto si affacciava su un orticello trasandato, sul cui fondo si stagliavano malinconiche due zucche marce. L’erba cresceva incolta lungo il perimetro, segnato dallo steccato scheggiato e si diradava nel centro, dove, in mezzo a piccoli fiori spezzati, una croce di legno levigato riluceva sotto il riflesso lunare.
«Quando avete fatto mi trovate al focolare». Ci lasciò sole. Mi avvicinai lentamente, con la mano fedelmente in tasca.
«In questo mondo sono davvero poche le persone che posso ritenere la mia vera famiglia. Con te ne ho perse la metà».
Una lacrima incontrollata bagnò il ciondolo brillante che tenevo sui palmi, e che qualche istante dopo legai al tronco orizzontale. Adriana strappò un pugno di fiori bianchi e li adagiò ai piedi della croce, per poi soffocare il viso nel mio vestito sgualcito.
«Torneremo presto».
Ci lasciammo l’accampamento alle spalle, lo zingaro ci congedò con un rapido cenno e sulla strada davanti a noi risuonavano i rumori della notte.
«Dove andiamo adesso?»
«A Nord…Ho qualche conoscenza. Poi chissà».
Tommaso, II B, indirizzo Classico
Spin-off: Giuseppe
La primavera: quale stagione piú bella può esistere in confronto a questa?
Il sole si risveglia dopo il suo lungo sonno e si fa seguire da tutte le altre creature. I fiori sbocciano, gli uccellini cinguettano, la rugiada illuminata dai primi raggi di sole crea un mondo magico; le persone, che senza il freddo gelido dell’inverno, tolgono i guanti, lasciano scaldare le mani alla luce del sole. Queste diventano rosee, lasciando il bianco pallido della stagione buia, la pelle diventa morbida, non è piú ruvida e screpolata dal vento gelido. Mi piace stare qui, nel parco, su una panchina, da solo, con una matita e un blocco da disegno.
Tutte le mattine, da almeno due settimane, una ragazza si siede due panchine piú in là, guarda il prato perfettamente tagliato, contempla la natura che si risveglia, chiude gli occhi, sospira e sparge delle briciole di pane a terra per gli uccellini, che la raggiungono subito per mangiarle. Ogni mattina la ragazza fa la stessa cosa: guarda, contempla, chiude gli occhi, sospira e io non riesco a non fissarla. Ma non guardo il viso, i capelli; le sue mani mi hanno rapito, stregato; come un canto di una sirena mi attirano verso di lei, ma non mi avvicino; disegno, disegno le sue mani, mentre sono appoggiate sulle ginocchia, mentre osserva il parco; le disegno mentre se le passa tra i capelli, mentre buttano le briciole per terra. Sono attento a ogni minimo dettaglio, per quanto le possa vedere.
Le unghie sono quasi sempre colorate con smalti dai colori accesi e mi sono fatto l’idea che debba essere una ragazza molto solare o dai gusti strani, per usare un verde acido ad Aprile! Ha le dita lunghe e affusolate: probabilmente suona qualche strumento musicale. Ha una cicatrice sul palmo destro che mi incuriosisce: si sarà tagliata per sbaglio mentre cucinava? È caduta? Si è tagliata per ripararsi un’altra parte del corpo da qualche pericolo?
I miei pensieri vengono interrotti da un’ombra che mi sovrasta. Alzo la testa e la vedo, gli occhi verdi, i capelli castani, le labbra rosse e piene che non avevo mai notato; riconosco lo smalto verde acido e le mani curate. Guarda ora me, ora il disegno che sto rifinendo e ritrae le sue mani.
«Lo sai che sei inquietante vero?» mi dice sorridendo. «Sono giorni che non la smetti di fissarmi, chi sei?» mi chiede, sedendosi di fianco a me. Le parole mi muoiono in bocca.
Michela, III Q, indirizzo Scienze umane
Il mio letto era ancora lí, era vero. Ma scomparsi i miei libri, le Barbie con cui avevo giocato fino alla prima media. Sulla mia vecchia scrivania c’erano appoggiati solo vecchi documenti e un diario. Decisi di aprirlo e me ne pentii subito. La pagina di ieri rivelava la mia vera identità, non ero figlia di una donna che doveva lottare per sopravvivere a un padre che picchiava i suoi figli. Mia madre era colei chi mi aveva accudito fin da bimba e che ora aveva deciso di liberarsi di me, scambiandomi per un nuovo compagno. Sentivo le lacrime scendermi sulle guance, una sensazione di rabbia e terrore mi pervase l’intero corpo. Corsi fuori da quella casa maledetta che aveva visto e sentito piú menzogne di qualsiasi altra. Ero stata tradita, due volte, nella stessa vita. Ormai nulla contava piú, la scuola, le attenzioni delle cugine che mi avevano accudito cosí perfidamente, mia sorella. Tornai a casa tra singhiozzi soffocati e lacrime trattenute per non attirare l’attenzione di Sergio. Meditai diversi giorni su quello che potevo fare, avevo ormai abbandonato le lezioni e la famiglia che mi aveva ospitato.
Una sera un temporale stava scaricando la sua pioggia e i suoi fulmini sopra di noi. Proprio durante un boato presi la mia ultima decisione, andai a rovistare tra le cose di Vincenzo e la trovai. Fredda, pesante, lunga e carica; andai in camera e mi sdraiai sul letto a meditare sulla mia vita. Dieci minuti dopo avevo ricapitolato tutte le disavventure che mi erano capitate nel corso della mia brevissima esistenza, dalla perdita del primo dente alla perdita di Vincenzo, dalla cessione alla cugina fino al tradimento scoperto qualche giorno prima.
Mi avvicinai alla finestra a contemplare la pioggia. Ammirai per l’ultima volta il pezzo di metallo che tenevo in mano, cosí potente e cosí terrificante. Un lampo squarciò il cielo e un rumore assordante seguí subito dopo. Non era il tuono. Il corpo sul pavimento già sporco.
Massimiliano, IV M, indirizzo Scientifico
Spin – off: Il fratello senza nome
Sono l’unico figlio trascurato in questa casa. Sembra che nessuno mi voglia bene. Vivo in una famiglia numerosa: ho tre fratelli e una sorella piccola, ma adesso ne è arrivata un’altra sorella che tutti chiamano Arminuta, la «ritornata».
Ho saputo dalla mamma che lei è la nostra sorella; è stata abbandonata dalla famiglia che l’aveva adottata. È carina, però abbiamo una bocca in piú da sfamare. Lei non sembra felice in questa famiglia, l’ho notato! Qualche volta vuole scappare per ritornare dagli zii, che in realtà non la vogliono piú.
Arminuta non dice mai la parola mamma: l’ho notato tante volte e se deve rivolgersi a lei con urgenza, cerca di catturare l’attenzione in altri modi. Se tiene il bambino in braccio, lo pizzica sulle gambe per farlo piangere; ma questo è un segreto, non lo dirò mai a nessuno, perché è molto divertente e fa riconoscere la sua vera natura. Tutti gli altri non vedono i fatti quali sono, ma io sí.
Wu, III Q, indirizzo Scienze umane