Liceo classico Vittorio Emanuele II (Lanciano)
Classe: I B
Docente: Antonella Festa
Σα βγείς στον πηγαιμό για την Ιθάκη,
να εύχεσαι νάναι μακρύς ο δρόμος,
γεμάτος περιπέτειες, γεμάτος γνώσεις.
Se ti metti in viaggio per Itaca
augurati che sia lunga la via,
piena di conoscenze e d’avventure.
In poesia ogni verso, ogni parola, ogni singola virgola ha il suo preciso posto, un po’ come in un puzzle che bisogna costruire con pazienza per scoprire l’immagine che ne risulta. Il viaggio, il νόστος, è uno dei temi cari al poeta neoalessandrino Kostantinos Kavafis, che si ispira all’Odissea per la stesura della sua Itaca. Non si tratta però di emulazione, di un semplice rapporto di dipendenza dal modello omerico: il punto forte della lirica di Kavafis consiste nell’attingere all’antichità classica per ricontestualizzarla, come un aruspice che interpreta gli eventi del passato leggendoli alla luce del presente, in vista di un futuro spesso incerto. È questa l’operazione che fa di lui un poeta neogreco.
Le poesie procedono seguendo una consecutio temporum che regola i tempi tra l’Io del poeta e il mondo che lo circonda, il destino individuale e la storia collettiva. Kavafis prende in carico una cultura emblematica, ma la fa attraversare da un sentimento anti-eroico, rivelando gli eventi occulti, minoritari e per questo spesso cancellati. Come afferma Dominique Grandmont, l’opera è «una specie di Iliade rovesciata, in cui gli eroi sono sempre piú grandi della loro caduta, un’Iliade dei dimenticati». Gran parte dei personaggi sono infatti umili comparse di una storia omessa e dimenticata, gli ignorati o sconfitti dalla Storia, come pescatori, piccoli commercianti, nobili dissoluti o assassinati, generali traditi o dignitari esiliati.
Cos’è che l’ha spinto a immedesimarsi fra le schiere dei dimenticati? Perché non limitarsi a celebrare i piú importanti guerrieri, quelli che hanno scritto la Storia e i cui nomi echeggiano ancora tra i banchi di scuola? Forse perché la Storia è opera non solo di coloro che poi a conti fatti si sono presi tutti i meriti, ma anche di quelli che molto umilmente non hanno nemmeno osato chiederli. Forse perché sarebbe stato fin troppo banale fermarsi a rievocare ancora e ancora le gesta illustri di un passato contemplato come un sacrario o forse, semplicemente, perché in fondo anche lui, Kavafis, si sentiva parte di un mondo un po’ ignorato, marginale, a tratti anche diffamato, quel mondo di «amori sterili che il mondo disapprova», per dirla con le sue stesse parole.
Vale la pena, a tal proposito, ricordare che Kavafis era omosessuale e che sotto la spinta di un desiderio erotico inappagato, mai confessato apertamente e tanto meno vissuto alla luce del sole, ha cominciato a scrivere i primi versi. All’inizio, l’attenzione è sempre focalizzata su qualcosa di nascosto e al tempo stesso nostalgico, quasi come una sorta di segreto mantenuto per tanti anni che comincia ad affiorare per poi palesarsi. Cosí, l’affermazione del suo orientamento sessuale cammina di pari passo con l’affermazione dell’io lirico. C’era un impedimento a trasformare / il mio modo di vivere e di agire. / C’era un impedimento che m’interrompeva / molte volte che stavo per parlare. Più avanti, il poeta comincia a liberarsi del suo impedimento fino ad arrivare a esprimere un chiaro rifiuto per la normalità, preferendo a essa identità complesse, multiformi e ambigue come lo erano quelle di età ellenistica, quando la cultura greca si era mescolata con le contigue, formando un patrimonio comune a tutto il Mediterraneo.
Il rifiuto di quella che ancora oggi chiamiamo normalità, ostinandoci ad inseguirla, viene espresso in Fiori finti: Non voglio i narcisi veri – io non amo / le rose né i gigli veri. / Ornano giardini comunissimi e banali. […] Datemi fiori finti – la gloria dello smalto e / del metallo / forma che non sfiorisce, non si piega, non si / decompone. / Fiori di giardini stupendi di un diverso luogo / dove Teoria Ritmo e Sapienza hanno dimora. […] Se non hanno profumo, verseremo aromi / incensi sensuali vi arderemo innanzi.
Le poesie di Kavafis, dunque, riportano in vita schiere di dimenticati da un glorioso passato, con una tensione evidente verso il futuro Piú avanti – in una società perfetta – / apparirà di certo qualcun altro / che mi somigli e che sia come me un uomo libero, mentre su chi legge aleggia l’amara e nostalgica consapevolezza che una società perfetta è ancora di là da venire, o forse è solo un’utopia.