Qualche volta i confini a scuola sono angusti. Le ore lunghe e le parole troppe. L’imponenza della verità istituzionale vince ogni stimolo di crescita e ogni curiosità. E il peccato piú grave che si possa commettere è sbagliare: l’errore non trova posto in un percorso che deve essere sempre dritto e portare con sicurezza alla destinazione prevista. Il lusso piú grande allora è inseguire la bellezza delle trame, le parole senza costrutto che però costruiscono vite. Le letture prive di immediate ricadute didattiche. Le strade sbagliate che aprono nuovi percorsi.
Ho pensato a tre libri che per me sono stati speciali e li ho pensati come si pensano libri da leggere di nascosto sotto il banco, con il desiderio di farsi scoprire e ammirare: là dove tutti nascondono un cellulare e sussultano all’ennesimo tintinnare del whatsapp, sussultare invece per Orhan Pamuk, Patrizia Cavalli e Thomas Kuhn.
Istanbul di Pamuk si trova in edizione tascabile, non costa molto, specialmente se si pensa a quello che può dare. Inizia cosí, a pagina 3: «fin da bambino, per tanti anni ho creduto che vivesse un altro Orhan, del tutto simile a me… in una strada di Istanbul, in un’altra casa simile alla nostra…», e poi continua a pagina 5: «quando mi sentivo infelice, cominciavo a fantasticare di andare in un’altra casa, in un’altra vita, nel posto in cui viveva l’altro Orhan, e poi credevo di essere l’altro Orhan, e mi distraevo con i suoi sogni di felicità. E questi sogni mi rendevano cosí felice che non c’era bisogno di andare in un’altra casa». Tutti da bambini abbiamo avuto lo stesso pensiero di Orhan, ma non tutti abbiamo avuto il fantasmagorico, stratificato e labirintico mondo di Istanbul sotto di noi, dentro di noi, e i vuoti immensi della storia inesauribile di un mistero che ha migliaia di anni. Orhan esplora e recupera i mondi che ha vissuto e che avrebbe potuto vivere, li recupera con memoria da vecchio e stupore da naufrago che, ogni volta che sta per affogare nell’oceano del tempo, trova un nuovo espediente per riemergere. Questo libro ha molte fotografie. È un intrico di strade. Di scale e stanze dentro le case di legno sul Bosforo. Di personaggi che non possono esistere e di altri che non potevano non esistere. È l’esatto contrario di un manuale scolastico (non spiega, non esaurisce, non schematizza, nè sintetizza). È il contrario di wikipedia, non risolve curiosità, ne crea sempre di infinitamente nuove; non può avere per fonte che un solo individuo, si spera inaffidabile. Anche questo libro contiene un’enciclopedia: «erano i primi tempi in cui imparavo a leggere e scrivere, e nella libreria polverosa di mia nonna, con i vetri scorrevoli per lo piú chiusi… trovai un libro enorme, delle dimensioni di un giornale. Osman Gazi ad Atatürk. Il panorama di seicento anni di storia ottomana… quando a casa nostra si faceva il bucato o nei giorni in cui non andavo a scuola, perché ero malato o semplicemente non ne avevo voglia, salivo da mia nonna e tiravo fuori quel libro». Pamuk ha avuto il Nobel per la letteratura nel 2006. È il guerriero instancabile di una battaglia che non deve finire. Ognuno combatte con le armi che conosce. Inutile per i libri, in questo tempo dove tutto è rintracciabile, mettersi in concorrenza con le forze dell’ordine: l’unica speranza è far scalpitare nuova vita nell’eterno disordine della letteratura.
Non mi sono quasi piú avvicinato alla poesia dai tempi in cui ero studente al liceo classico. Troppe versioni in prosa, troppi slanci aulici nei miei ricordi. Avevo quasi dimenticato che la poesia è un bicchier d’acqua. Che lava via come un antidoto prodigioso la pesantezza dei giorni. O quanto meno può esserlo, visto che può essere tutto: Pigre divinità e pigra sorte di Patrizia Cavalli è già di per sé un titolo bellissimo. «È tutto così semplice,/sí, era cosí semplice» recitano i primi versi nella copertina bianca Einaudi. Leggere queste poesie è come conoscere una persona. Non ci si crede, anche se tante volte si dice e si ripete che è questo che fa la letteratura. Leggete! vedrete. Ci sono tutti i guizzi di un essere vivo che si impone per intelligenza. L’autrice di questi versi la conobbi in un albergo in occasione di un premio letterario e la ricordo mentre inveiva contro la colazione che prevedeva solo merendine industriali: «possibile che non abbiate un pezzo di pane? Un pezzo di pane?» Per me non c’è poesia piú grande di quella che nasce dalla lotta quotidiana per la bellezza e la purezza del mondo: la purezza di un pezzo di pane contro tutte le merendine indutriali del mondo. E non c’è tregua, mai: «Sto qui ci sono e faccio la mia parte./Ma io neanche so cos’è questa mia parte./Se lo sapessi/potrei almeno uscire dalla parte/e poi sciolta da me godermela in disparte».
E poi, mentre la lezione di fisica impone uno sforzo di fiducia del quale non sempre ci si sente all’altezza, scoprire che il percorso della scienza è per lo piú fatto di errori. A un certo punto coloro che credevano di sbagliare dimostrano di aver ragione e coloro che credevano di aver ragione, si rintanano in un angolo, rancorosi. Il loro è il destino dei dimenticati. Ma non ci sono destini felici nella scienza. Anche chi ha sconfitto gli antichi vincitori sarà a sua volta sconfitto. Lo insegna Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Nella scienza possono sorridere solo quelli che sono già pronti a incassare il colpo della sconfitta – sanno che la loro verità è solo un paradigma destinato a tramontare per lasciare il posto a uno nuovo – e che quel che conta è innanzitutto imparare a perdere. A vantaggio di chi? Di quelli che verranno dopo di noi e sapranno sempre e per forza qualcosa di piú, dopo aver preso il nostro sguardo sul mondo e averlo rivoltato come un calzino. E quel che è piú straodinario è che tutto questo funziona: a forza di perdere pezzi di verità ci si ritrova con una verità sempre piú intera. Si divaga, si sbaglia e ci si trova sulla variante piú panoramica del cammino.