IISS Cezzi De Castro Moro, Maglie (LE)
Classe: III A CAT
Docente: Elena Tamborrino
«Giunsi a Torino il 19 di ottobre, dopo trentacinque giorni di viaggio: la casa era in piedi, tutti i familiari vivi, nessuno mi aspettava».
Bastano queste poche parole per riconoscere il senso del viaggio maledetto di Primo Levi, all’epoca giovane chimico torinese di famiglia ebraica, iniziato in Se questo è un uomo dove si narra della deportazione e della prigionia ad Auschwitz, e terminato con il racconto di un ritorno a casa, ne La tregua, scritto tra il 1961 e il 1962 e pubblicato da Einaudi la prima volta nel 1963, ben diciotto anni dopo le terribili esperienze vissute dall’autore.
Tra i due volumi c’è una continuità di stile e struttura: ogni capitolo racconta dei fatti quasi fini a loro stessi, come se nell’insieme fossero una raccolta di racconti, ma tutti collegati da un filo logico. In modo particolare ne La tregua, racconto di un viaggio che attraversa mezza Europa, argomenti come la nostalgia, la disumanità, il dolore vengono affrontati da Levi con il suo stile unico, basato sull’oggettività, a rischio di risultare a volte crudo, venata però da una sottile ironia che attraversa alcuni passaggi. È un libro che esprime molti sentimenti, creando una dicotomia tra essi, dall’orrore della prigionia alla gioia per la liberazione passando per la l’incertezza e la felicità.
Il viaggio dei profughi, all’indomani della liberazione del campo di Auschwitz da parte dei Russi, corrisponde a un lento ritorno alla normalità, con tutte le difficoltà legate a una situazione eccezionale: si vive in campi profughi o all’interno di case di fortuna, si conoscono nuovi compagni, connazionali o stranieri, ognuno con personalità diverse, abili in qualcosa e meno capaci in altro, si incontrano culture e modi di pensare variegati. In tanta difformità, però, c’è anche una concordanza, un legame molto forte che unisce tutti i superstiti: la voglia di sopravvivere, di andare avanti, di fare un ultimo sforzo, come i maratoneti, prima di raggiungere il traguardo, la propria casa, dove i familiari forse aspettano ancora, pur senza speranza di vederli tornare, dopo mesi, anni di distanza.
Tra gli episodi narrati da Levi e tra i personaggi che egli ricorda, colpisce in modo particolare la storia di Hurbineck, bambino di circa tre anni, figlio del Lager, della morte, della disperazione: paralizzato, non sapeva parlare, non aveva mai visto un albero, un fiore, qualcosa di colorato, di vivo al di fuori del «mondo» grigio dov’era imprigionato, morì pronunciando parole incomprensibili, di una lingua sconosciuta, che forse il solo Hanek, quindicenne ungherese che del bambino si era preso cura per la durata della sua breve vita, poteva comprendere nella muta corrispondenza di affetti che si crea tra persone bisognose di un gesto di calore.
Quella de La tregua è una lettura importante, da una parte per i valori che trasmette – amicizia, lealtà, coraggio, fiducia e solidarietà – e dall’altra perchè ci permette di comprendere una tragedia che è fondamentale non dimenticare.