Walter BarberisGiorno della memoria

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Al termine della Seconda guerra mondiale, uno strano silenzio copriva la tragedia della Shoah. Dopo la caduta del nazismo in Germania e dei fascismi in varie parti d’Europa, dopo la vittoria degli Alleati contro i tedeschi, dopo gli episodi gloriosi dei vari movimenti di resistenza contro i regimi dispotici, pareva che l’unica via di uscita verso un futuro di pace e un nuovo progresso fosse dimenticare quanto prima gli orrori della guerra. Guardare avanti era il sentimento più diffuso. In particolare, pareva scomodo e senza vere spiegazioni quel tremendo episodio che aveva visto eliminare milioni di ebrei nei campi di sterminio, nelle camere a gas e nei forni crematori. Come se fosse stato frutto di una allucinazione, di una mostruosa follia da parte degli assassini nazisti; e di una remissività quasi colpevole da parte delle vittime, entrambi intrappolati nelle spire di una cultura del razzismo senza via di scampo. Quella tragedia, ancora recente, non era ricordata né indagata. Il mondo si stava dividendo nuovamente e si preferiva parteggiare per i paesi che rappresentavano la democrazia occidentale, oppure per il socialismo di modello sovietico: entrambi, in fondo, appartenevano alla parte buona, quella che aveva sconfitto il nazismo.

Ma i grandi interrogativi rimanevano senza risposte: perché era potuto succedere; come avevano potuto tanti tedeschi – e molti loro alleati – accondiscendere a quelle atrocità; come era stato possibile che milioni di persone non si fossero ribellate alla deportazione; e infine, se quello fosse stato un episodio, gigantesco ma eccezionale, tutto sommato irripetibile e per alcuni persino irraccontabile: oppure se l’umanità fosse ancora in pericolo.

Solo col tempo, verso gli anni ’60, a una storia della Resistenza si affiancò una storia dello sterminio: con la comparsa di una figura inedita e molto importante, quella del testimone. Poco a poco, i reduci dalla deportazione, gli scampati alla strage, ormai maturi negli anni, si affacciavano in occasione di ricorrenze e celebrazioni a portare la voce di chi aveva vissuto esperienze che parevano venire da un altro mondo. Con pudore, con sincerità e talvolta con omissioni involontarie, cominciarono a dire ciò che era loro successo. Adesso, uomini e donne, ragazzi e anziani che erano stati tradotti in lager dai quattro angoli d’Europa e che miracolosamente ne erano usciti vivi, parlavano.

Le prime indagini raccolsero la documentazione per spiegare il fenomeno e contestualizzarlo. Cercarono di capire come l’ideologia nazista avesse coltivato un antico pregiudizio razzista fino a concepire la distruzione fisica dell’intero popolo ebraico. Degli storici che hanno esaminato e raccontato la Shoah, Raul Hilberg, con La distruzione degli ebrei d’Europa, rimane il più importante. Frutto di anni di lavoro e di una mole imponente di prove, contro ogni tentativo di negazione o di giustificazione, il libro di Hilberg è il caposaldo della storiografia della Shoah.

I testimoni, coloro che hanno raccontato la storia della deportazione e del concentramento, a loro volta sono stati molti e con gli anni hanno fornito una molteplicità di sguardi utili a una ricostruzione storica attendibile e ammonitrice.

Su tutte, però, è svettata la voce di Primo Levi, non soltanto perché levigata da una forma letteraria cristallina e asciutta, ma soprattutto per la sua capacità di interrogare senza remore la tragedia, mettendo in guardia dalla retorica, guardando nel fondo di una piaga che ha infettato profondamente la storia della civiltà. I suoi romanzi memoriali sono notissimi; ma il libro che rimane unico per la profondità e la severità della analisi, che rivela gli aspetti più inquietanti dello sterminio degli ebrei e che interroga le responsabilità di ciascuno di noi circa la possibilità che simili eventi possano ripetersi, è I sommersi e i salvati. Qui, nella sua ultima riflessione, Levi indaga i meandri della memoria, mette in guardia dalle facili testimonianze che non sanno raccontare fino in fondo l’abisso della Shoah; analizza la infinita debolezza delle vittime, la loro riduzione alla condizione di animali, la loro disponibilità a cedere dignità in cambio di una speranza di vita; e, d’altra parte, ci restituisce la ottusità dei carnefici, la facilità a fare del male, la oscena meschinità dei collaboratori di una autorità dispotica, e l’indifferenza ipocrita di una umanità incapace di solidarietà. E risponde con argomenti inattaccabili che sì, quella tragedia che ha segnato la storia del Novecento, è ancora possibile. Forse in forme diverse; ma possibile. Levi ci insegna che al fondo di un nazionalismo estremo, del razzismo incontrollato e serpeggiante, c’è sempre un lager.

Cosa rende dunque le persone capaci di superare la barriera dell’orrore e di uccidere per odio razziale donne, vecchi, bambini? Come si diventa assassini, capaci di crimini spaventosi, di una violenza senza limiti? Molti scienziati sociali hanno indagato il retroterra psicologico di questi comportamenti; ne hanno analizzato i profili individuali e collettivi. Lo studioso che ha usato un caso esemplare per darci una spiegazione è Christopher Browning. Nel suo libro Uomini comuni. Polizia tedesca e «soluzione finale» in Polonia, racconta la vicenda di un battaglione di polizia composto da riservisti, uomini di mezza età senza alcuna particolare propensione per la violenza e senza convinzioni ideologiche. Non dei fanatici nazisti, uomini comuni. Costoro hanno ucciso migliaia di persone nei villaggi occupati dai tedeschi in territorio polacco, come incalliti ed efferati criminali. Come è stato possibile che gente normale si trasformasse in bestiali esecutori? Le testimonianze dei sopravvissuti, che fecero parte di quel contingente di aguzzini, sono impressionanti. Messe al vaglio con tecniche di indagine che ne spiegano i moventi dicono che gli elementi decisivi furono tre: la conformità al gruppo, cioè un atteggiamento conformista, di adeguamento ai comportamenti della maggioranza; quindi, la tendenza a ubbidire agli ordini impartiti da una autorità, militare, politica, religiosa o anche scientifica: cioè una diffusa attitudine a deresponsabilizzarsi, a non scegliere, a non discriminare il bene dal male; infine lo zelo, il desiderio di emergere, di essere notati e apprezzati da un superiore, l’ansia di fare carriera. Questi elementi, ben al di là della unicità di Auschwitz, ci inducono a temere che – sia pure in condizioni e luoghi diversi – altri genocidi siano possibili; perché questi sintomi del male sono visibili fra noi. Perciò la funzione attiva del ricordo della Shoah deve essere non soltanto un omaggio alle vittime del nazismo, ma anche e soprattutto un ammonimento contro i germi malati che alimentano il razzismo e il desiderio di vivere in comunità chiuse. Il pericolo è sempre in agguato e una cittadinanza attiva, informata dalla lezione della storia, è il solo antidoto contro il male.