Anna Migotto e Stefania MirettiNon aspettarmi vivo

Tommaso De Luca, preside ITIS Avogadro (TO)

Ci sono libri che hanno la forza dell’analisi e altri che hanno dalla loro i colori della vita. I primi ti convincono, gli altri ti si imprimono nella mente.

Leggendo il libro di Anna Migotto e Stefania Miretti, Non aspettarmi vivo. La banalità dell’orrore nelle voci dei ragazzi jihadisti, si ha, e vivissima, l’impressione di come le scelte radicali siano tali solo a posteriori e siano invece prese un passo alla volta, comunemente, quotidianamente, da persone non eccezionali – persone che potresti conoscere, si intitola infatti un capitolo – e in vite come quelle di tutti. L’espressione resa celebre da Hannah Arendt più di cinquant’anni fa ritorna in questo bel libro non più nel senso dell’inconsapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni, ma in quello della banalità dell’inizio del percorso che conduce all’orrore. E vengono alla mente le tante interviste che rimbalzano sui media ai vicini di casa di coloro che i fatti hanno rivelato magari come foreign fighters: «riservato», «gentile, ma sulle sue», «mai notato niente di strano… passava; buongiorno e buona sera…»

Le testimonianze raccolte qui, dirette o attraverso familiari e amici, parlano di un universo giovanile a cui siamo abituati. Il calcio, la breakdance, il rap, le magliette e i jeans alla moda che compaiono in queste vite sono il prima, insieme con la scuola, le università di prestigio, il lavoro sicuro e retribuito. Perché non si pensi che chi sceglie di diventare jihadista sia per forza marginalizzato. Sarebbe bello, facile, consolatorio: interveniamo socialmente, togliamo le sacche di marginalità e di conseguenza elimineremo la radice del problema; il gioco è fatto. Ma non è così.

Il dopo è che tutto il prima è diventato haram, vietato e resta il niqab o la barba, la preghiera ossessiva, la presa di distanza dagli amici, magari dalla famiglia, le nuove frequentazioni, la partenza e la sparizione in Siria. Dopotutto, come scrivono le due autrici: «A Da’ish piacciono i calciatori a patto che smettano di giocare, e i musicisti a patto che smettano di suonare».

Non la marginalità, ma a muovere questi giovani è il disorientamento, che si fa rabbia e disperazione. Un padre dice: «Questi figli sono fragili, è incredibilmente facile manipolarli» e il contagio delle idee si sparge tra gli amici, i fratelli, le sorelle, senza che alcuno se ne accorga se non quando tutto è avvenuto. L’illusione data dai media del mondo globalizzato si rivela nella sua realtà mistificante e apre allora la porta ai profeti del riscatto.

Come si diventa jihadista? Anche il percorso non è poi eccezionale; è banale anzi. Sì è vero, c’è una specie di lavaggio del cervello  – crediamo che l’espressione sia più che altro scaramantica – ma gli adepti vengono conquistati con istruzioni semplici, il Corano è presentato alla lettera come un manuale e il comportamento da seguire è univoco come un algoritmo. Non per niente i leader jihadisti cresciuti nei paesi arabi si sono formati nelle facoltà scientifiche delle università, in particolare a Ingegneria, tanto che vi sono studi sociologici che stabiliscono che il 45% dei 4000 jihadisti censiti sono laureati o iscritti a Ingegneria.

Ce lo testimonia Malik, il combattente jihadista già in Iraq nel 2003 e dieci anni dopo in Siria, nel suo secondo monologo:

«Voi occidentali avete un’idea sbagliata di noi jihadisti. Pensate che siamo dei disperati, gente senza alternative, ma non è cosí, la disperazione non c’entra nulla. In Iraq nel 2003, proprio come oggi in Siria, c’erano un sacco di laureati: medici, ingegneri, informatici, persone benestanti che si erano lasciate alle spalle un buon lavoro, una vita comoda e uno stipendio, senza pensarci un solo secondo».

Il reclutamento, dicevamo, comincia on line e sui social che usiamo tutti: Facebook o Twitter. In tre semplici fasi. La prima: il navigatore mette qualche like su pagine legate all’islam e l’algoritmo gliene propone altre; nuovo mi piace e nuovo suggerimento di persone che potresti conoscere; il tutto molto velocemente, anche grazie alla selezione della lingua contenuta nell’algoritmo di Facebook: amici aglofoni se sei inglese, francofoni se stai in Francia; puoi essere contattato dalla Siria, dalla Libia. Secondo step: il nuovo amico ti scrive un messaggio privato e pian piano si conquista confidenza e fiducia. La terza fase è quella in cui tutto diventa esplicito grazie alle messaggerie sicure come Telegram «lo strumento di comunicazione più amato dai jihadisti». È fatta. Semplice, ma organizzato con cura: i social network traboccano di reclutatori. Informatici e programmatori pronti a sostituire ogni account segnalato e chiuso dalle intelligences che sono sempre un passo o due indietro, perché i social sono garantiti dalle leggi sulla libertà di espressione.

Viene da chiedersi se madri, padri, educatori – chi scrive è appunto uomo di scuola – non possano accorgersi in tempo di nulla di ciò che accade a ragazzi che, ci dicono le testimonianze, hanno dai 18 ai 25 anni. Lo psicoterapeuta ci mette in allarme sui cinque segnali d’allarme: 1. Il vittimismo; 2. l’ identitarismo («sono musulmano»); 3. il comunitarismo, («sono musulmano, non belga o italiano»); 4. il complottismo; 5. l’antisemitismo. Quanto più sono compresenti i sintomi, tanto più è grave la situazione.

E che la situazione sia grave ce lo dicono la cronaca e, nell’Introduzione, le due autrici di questo lavoro:

«Molti dei ragazzi di cui si racconta in questo libro sono già morti, alcuni mentre scrivevamo di loro, o sono stati catturati e si trovano in prigione, non di rado pentiti della scelta fatta; qualcuno è tra le vittime di quei loro coetanei scellerati e crudeli; altri sono ancora là, o acquattati in qualche posto che non ci aspettiamo, e dallo “Stato” minacciano l’umanità intera».

Ci sono libri che hanno la forza dell’analisi e altri che hanno dalla loro i colori della vita e quindi anche della morte; o forse sono i lettori che da un libro si attendono l’una o l’altra cosa, o, come qui, entrambe.