Liceo Dante Alighieri, Roma
Classe: IIIA
Docente: Christian Raimo
Francesco rinnega la letteratura e la cultura poiché ritiene che distolgano dal lavoro manuale, che lui predilige; nonostante ciò più volte si esprime in francese. Perché allora non rinuncia anche a questo aspetto della sua vita precedente?
Non è esattamente così. Rinuncia alla cultura perché la scienza – ritiene – «gonfia», fa diventare superbi, è una fonte di orgoglio e di dominio, spegne la carità, crea una separazione fra chi sa e chi no. Vuole essere un povero ma non un mendicante; per questo vuole che lui e i frati lavorino. Parla in francese quando è ancora sulla via della conversione, quando si ricorda molto bene delle avvenure di re Artù e di Orlando che erano scritte in francese, dove il giovane Francesco trovava esaltati i suoi ideali, la liberalità, la cortesia, la prodezza. In quel tempo Francesco pensava ancora di diventare cavaliere. Francesco parla in francese in occasioni speciali: ricorre alla lingua dei paladini e dei cavalieri quando ha bisogno del loro modello, per superare con slancio una situazione emotiva difficile, quando ha paura e vergogna. È allora che parla la lingua con cui i suoi eroi mettono in atto generosità, lealtà, coraggio disinteressato.
Qual è la necessità che lei ha di mettere in dubbio la veridicità delle stimmate intese come fatto storico, quindi realmente accaduto? Perché frate Elia e frate Leone avrebbero dovuto raccontare un fatto talmente incredibile, sapendo di andare contro gli ideali religiosi di quel tempo (a p. 120 di Vita di un uomo: Francesco d’Assisi scrive: «c’era una punizione severissima per chi avesse osato paragonarsi in questo modo a Cristo»), se non era vero?
Mi dispiace di essere stata così totalmente fraintesa. Io non ho necessità di dimostrare una cosa perché me la sono fitta in testa. Sono una storica e desidero raggiungere la verità, cercando di capire le fonti, non distorcendole. Ho mostrato che chi scrive si contraddice, che, morto Francesco, le tante persone che parlano delle stimmate, dicono fra loro cose molto diverse: ad esempio una volta il serafino parla, una volta è muto, una volta è un angelo con sei ali, una volta, da vicino, svela di essere Cristo. Papa Gregorio IX nella bolla di canonizzazione con cui dichiarò Francesco santo non parla delle stimmate e per dieci anni non le nominò mai nei documenti ufficiali e lo stesso Bonaventura dice che il papa aveva molti dubbi. Francesco non parla mai delle stimmate, nessun frate in vita vede le stimmate. Quindi le stimmate sono un problema storico. Il mio compito non è quello di credere o non credere alle stimmate, il mio compito è di capire perché ruotano intorno a Francesco tanti discorsi contraddittori. Consiglio vivamente di rileggere il capitolo sulle stimmate.
Perché san Francesco è ritenuto meritevole delle stimmate e i suoi predecessori no? Ad esempio, sant’Agostino.
È ritenuto meritevole da parte di chi? Da parte di Dio? Posto così è un problema che riguarda la fede e non la storia.
Partendo dalla vita di Francesco, come la si potrebbe proiettare ai nostri giorni? E ancora, come potrebbero concepire la povertà un laico e un ecclesiastico contemporanei? Dal libro emerge l’atteggiamento particolarmente umile di Francesco nel rapporto con la Chiesa. Egli non giudicava o rimproverava, ma semplicemente sceglieva per sé una strada diversa, credendo che non fosse la correzione o il rimprovero a far cambiare l’altro bensì l’esempio. Questo comportamento risulta nuovo alla società e alla mentalità dell’epoca, ma in realtà lo è anche per quelle attuali. Come è possibile che un atteggiamento così alternativo e risolutivo di tanti problemi, sociali e non, non sia stato colto nelle epoche successive o lo sia stato solo dopo aver perso parte della sua radicalità, cioè parte della propria natura?
Trovo sempre molto pericolose queste domande. L’epoca in cui viveva Francesco è diversissima dalla nostra. Si finisce per fare della fantascienza. Gandhi è vissuto poverissimo, ma Gandhi non voleva le stesse cose di san Francesco. I problemi di Gandhi non sono i nostri.
Secondo lei, Francesco era felice?
Come ogni essere umano è stato felice e infelice: felice quando lodava il Creato, quando viveva con i suoi pochi compagni, quando ha incontrato Chiara. Infelice quando ha visto che il suo progetto di vita cristiana veniva stravolto, che i frati volevano una vita più comoda e agiata, quando la Chiesa interveniva e modificava pesantamente i suoi progetti (ad esempio andare liberamente presso i musulmani e vivere fra loro in tutta umiltà); infelice, essendo un uomo, per le sue malattie e per le sofferenze, atroci, della sua lunga agonia.
Nel libro si vede come Francesco, spinto anche da alcuni eventi importanti, abbandoni le proprie ricchezze per scegliere la strada della mendicanza, dell’aiuto e della povertà. Si può fare un confronto, ovviamente con le dovute differenze, tra la sua figura e quella dei moderni «radical chic», ossia persone che nascono in una condizione sociale di spicco e però rifiutano la ricchezza?
Evidentemente non si può fare un confronto. Francesco non chiedeva mai denaro, proibiva di chiederlo e voleva che tutti i frati si mantenessero con le loro mani, che lavorassero. Sottolineo: erano poveri ma non mendicanti. Chi oggi nasce ricco e poi rifiuta la ricchezza? Con radical chic si intende un’altra cosa. Non capisco a quale personaggio ci si riferisca. In ogni caso per il radical chic ha molta importanza l’orientamento politico e con questa espressione si intende una ostentazione del rifiuto della ricchezza piuttosto che una vera povertà.
Il padre di Francesco, Pietro di Bernardone, giunge addirittura a disconoscere il figlio per i radicali cambiamenti dello stile di vita che lo avevano visto protagonista. È giusto un gesto di questo tipo? Se sì, come viene influenzata al giorno d’oggi la nuova generazione delle famiglie?
Il padre non disconosce; vuole che Francesco cessi di dissipare tutto quello che insieme hanno guadagnato. Questo è il suo punto di vista. Francesco dà ai poveri anche le ricchezze del padre. Il punto di vista del padre si può comprendere e infatti il vescovo non dà torto al padre. Francesco restituisce tutto e se ne va. Penso che in molte famiglie possano succedere scontri di questo tipo tutte le volte che un figlio non vuole fare quello che il padre vorrebbe. Ma è giusto imporre? Può un figlio rifiutare di studiare Farmacia all’università e così la farmacia di famiglia sarà messa in vendita, perché, morto il padre, non ci sarà più un farmacista nella famiglia? Non saprei rispondere. Dovrei sapere di più della situazione della famiglia e dei progetti di questo figlio. Ma tornando a Francesco, assistiamo allo scontro di due punti di vista diversissimi. Per Francesco da un certo punto in poi conta solo mettere in pratica alla lettera il Vangelo. Padre e figlio hanno due scale di valori totalmente diversi. Quanto all’oggi, penso che non si possa generalizzare.
Come mai Francesco si contrappone alla morale dei facili agi della società del Duecento?
Perché ne vede i lati negativi. Chi è ricco è potente. Chi è povero è inerme, non ha diritti. Chi è ricco, con l’usura, può ridurre un uomo sul lastrico. Chi è ricco mangia bene e ha meno probabilità di ammalarsi, certamente non soffrirà per la carestia. Ma Francesco parte sempre dal Vangelo: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Chi commette soprusi, essendo ricco, come ama il prossimo?
Come possiamo interpretare la morte di Francesco? Perché non voleva lasciare aneddoti o ricordi se il suo scopo era di rimanere un punto di riferimento per i posteri?
Anche una non scelta è una scelta. Voleva che i posteri si ricordassero che lui era morto con umiltà così come era vissuto, voleva che non ricordassero un discorso pomposo e retorico. Inoltre voleva che il ricordo dei posteri fosse della sua vita e non polarizzato su un unico episodio da ammirare. Per Francesco importante era l’esempio di vita cristiana che lasciava in ricordo.
In che modo la figura di Francesco ha influenzato le personalità ecclesiastiche occidentali?
Non lo so, dovrei fare uno studio in proposito. Francesco ha dato il suo nome a una grandissima città, San Francisco. L’attuale papa ha scelto il nome di Francesco soprattutto, mi sembra, per imitare la povertà e riportare la Chiesa alla povertà, rinunciando alle ricchezze che creano ingiustizie.