Francesca MannocchiIo Khaled vendo uomini e sono innocente

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«Ci chiamano mercanti della morte, immigrazione clandestina, la chiamano. Io sono la sola cosa legale di questo Paese. Prendo ciò che è mio, pago a tutti la loro parte. E anche il mare, anche il mare si tiene una parte della mia mercanzia. Mi chiamo Khaled, il mio nome significa immortale. Mi chiamo Khaled e sono un trafficante».

Khaled è libico, ha poco piú di trent’anni, ha partecipato alla rivoluzione per deporre Gheddafi, ma la rivoluzione lo ha tradito. Cosí lui, che voleva fare l’ingegnere e costruire uno Stato nuovo, è diventato invece un anello della catena che gestisce il traffico di persone.

Organizza le traversate del Mediterraneo, smista donne, uomini e bambini dai confini del Sud fino ai centri di detenzione: le carceri legali e quelle illegali, in cui i trafficanti rinchiudono i migranti in attesa delle partenze, e li torturano, stuprano, ricattano le loro famiglie. Khaled assiste, a volte partecipa. Lo fa per soldi, eppure non si sente un criminale. Perché abita un Paese dove sembra non esserci alternativa al malaffare.

Francesca Mannocchi, giornalista e documentarista che da molti anni si occupa di migrazioni e zone di conflitto, ci restituisce la sua voce. Le sue parole raccontano un mondo in cui la demarcazione tra il bene e il male si assottiglia.

Leggi un estratto.

«Volevo restituire a chi lo leggerà lo stupore di fronte a cui mi sono trovata io in questi anni quando incontravo un migrante che mi diceva di essere grato al Khaled di turno perché lo metteva su un gommone. E gli dava cosí la possibilità di raggiungere una vita diversa. Il mio scopo era raccontare la zona di grigio che c’è fra il nero e il bianco: dove non tutto è semplice o lineare. E i cattivi magari prima sono stati buoni» (Francesca Mannocchi su «la Repubblica»).

Al programma Propaganda Live di La7, l’autrice legge un brano tratto dal romanzo:

«Un libro che parla di noi e delle nostre colpe, del nostro passato e del nostro presente. E ci costringe a guardare in faccia uno per uno i migranti che annegano nel Mare Nostrum» (Marta Serafini, «Sette – Corriere della Sera»).

«Francesca Mannocchi ha fatto tanta Libia da giornalista accumulando una conoscenza profonda, qui messa a disposizione della forma letteraria per completare ciò che resta nel taccuino» (Gigi Riva, «L’Espresso»).

«Un libro essenziale per capire la Libia di oggi» (Salvatore Aloïse, «Internazionale»).

«Francesca Mannocchi narra un mondo in cui la demarcazione tra il bene e il male si assottiglia nella lotta per la sopravvivenza» (Alessandro Moscè, «Il Foglio»).

«Un racconto “dalla parte sbagliata” per comprendere meglio, non per giustificare» (Gaetano Vallini, «L’Osservatore Romano»).

«Laddove non sembra arrivare il buon giornalismo può forse arrivare la narrazione, per sciogliere il muro di indifferenza verso quel che sta accadendo nei lager libici» («Left»).

L’autrice parla del libro con Concita De Gregorio a Radio Capital.