Giulio GuidorizziIo, Agamennone

Liceo Ludovico Ariosto, Ferrara
Classe: II M
Docente: Micaela Rinaldi

Riscritture del finale di Io, Agamennone

Quando il cavallo di legno, simbolo della resa degli Achei, giunse davanti alle mura di Troia, città un tempo feconda e ricca di abitanti, i Troiani gioirono. Per loro erano finiti anni di guerre e sofferenze, le infinite perdite d’uomini erano cessate. Il saggio indovino, il buon Laocoonte, rimuginò tra sé e disse ai suoi concittadini: «Figli di Ilio, troppo facile la resa degli Argivi; sospetto un tranello». I Troiani diedero ascolto al loro acuto sacerdote e, dopo avere a lungo pensato, stabilirono che il dono venisse portato all’interno delle alte mura e che i migliori guerrieri tra loro si appostassero a guardia dell’immenso cavallo per sorvegliarne il grande ventre sospetto. Cosí, quando l’Atride Agamennone, il Laerziade Ulisse e gli altri capi achei sbucarono dalla botola sotto la coda, si videro fronteggiati dalle truppe troiane schierate intorno.

Prontamente l’astuto Odisseo suggerí al sommo comandante dei Greci: «Agamennone e tu, Aiace, con i migliori eroi scompigliate le file dei Troiani, mentre Menelao e io prontamente raggiungiamo le porte e le apriamo per fare entrare tutti i nostri». Agamennone subito impartí l’ordine e gli Achei si gettarono urlando e incutendo terrore tra i cittadini di Ilio; nel frattempo Ulisse e Menelao, senza essere visti, raggiunsero le porte della città e, colpite all’improvviso le guardie che non resistettero, aprirono le pesanti ali del portone. «Avanti, prodi Achei, massacrate tutti questi vili ladri di donne!» Gridarono insieme Menelao e il Laerziade. La ressa veloce dell’esercito greco, che penetrava lungo tutte le vie, non giunse in tempo a salvare il suo capo dalle mani sanguinose del piú piccolo dei fratelli di Ettore, il buon Polidoro, che per questa feroce vendetta dell’amato fratello, venne poi trasformato in mirto da Atena. Sgozzò come un bue Agamennone, che, privo di voce e ormai di forza, esalò l’anima. Gli Argivi, sgomenti e attoniti per la perdita della loro guida, si smarrirono e iniziarono a disunire le file, creando il caos. Anche i compagni di lunga data non si riconoscevano piú e per il terrore, come accecati, si colpivano l’un l’altro, trasformando la grande Ilio in un macello sanguinoso di membra tranciate.

Priamo e Ulisse posero fine alla cruenta battaglia chiedendo pietà per i morti figli e compagni. Odisseo, accecato dall’ira e dal dolore, inveisce contro la causa del decennale scontro: «Elena, maledetta, regina inutilmente bella, guarda quale dote hai portato a Paride, tradendo Menelao! Nessuno tra i Greci e i Troiani ti ama, nessuno vuole averti come concittadina. Si scontrino solo coloro che bramano il tuo amore. Si finisca questa guerra infelice, siano Menelao e Paride a decidere in duello la morte l’uno dell’altro e il tuo possesso».

Il giorno dopo, al primo chiarore del sole, i due contendenti si affrontarono sulla spianata davanti alla città, rossa per il troppo sangue versato, schierandosi l’uno di fronte all’altro con atteggiamento di sfida. Fu Paride ad attaccare, lanciando il giavellotto conto l’odiato marito di Elena, ma fallí miseramente il colpo; fu allora il turno di Menelao che scagliò il giavellotto a sua volta, non sbagliò la mira e colpí in pieno lo scudo del nemico spezzandolo in due. Con la ferocia di un leone Menelao si avventò sulla tanto agognata preda, che impallidita dallo spavento si diede alla fuga, abbandonando la spada a terra. «Dove corri, sporco troiano, impudente usurpatore del nome paterno! Non cosí si comporta Priamo, né tuo fratello Ettore avrebbe accettato di vederti lasciare il duello. Ho vinto! La tua fuga ha segnato la tua morte». Immobile, Menelao prende la mira e scaglia con forza violentissima la lancia che viene deviata dal soffio di Venere, protettrice del troiano. Sicuro dell’appoggio divino, Paride si gira e ridendo scaglia un sasso contro il Greco, colpendolo al volto. Cade, privo di sensi, Menelao e a fatica cerca con gli occhi l’amatissima Elena: non la trova ed esala l’ultimo respiro.

Scende la notte e i fuochi illuminano i preparativi degli Argivi per tornare in patria e i lamenti per gli Atridi defunti. Una delegazione di Troiani chiede di parlare a Nestore il piú saggio e a Odisseo, il piú astuto e piú cinico dei Greci. Vogliono consegnare chi ha rovesciato su di loro l’onta di una vittoria disonorevole. L’indomani avrebbero trovato Paride legato a un albero vicino alla riva del mare.

Marco e Sebastiano

 

I due eroi piú importanti del conflitto si trovavano in quel momento, crudo e colmo di dolore, uno di fronte all’altro. Entrambi temevano per il loro destino, ma la fame di vendetta nel corpo di Achille rappresentava un ostacolo che Ettore non era in grado di affrontare. L’amarezza in lui scatenata dalla morte dell’amico diede foga ad una rabbia insormontabile, tale da renderla il movente principale del suo gesto. Impugnando la lancia con la mano tremante, inflisse quell’ultimo e decisivo colpo che portò l’avversario ad emanare il suo ultimo ed esausto respiro. Ma l’incontrastato eroe Acheo, che era solito esternare completamente ogni sua emozione, volle dare dimostrazione della sua monumentale forza sfogandosi sul guerriero troiano ormai cadavere: gli tolse la corazza in segno di premio, e tutte le altre vesti posate sul suo corpo, gli forò le caviglie, facendoci passare una corda di cuoio e legandola al carro. Con un colpo di frusta agitò i cavalli permettendo cosí che incominciassero la corsa nella pianura. Ettore, il piú nobile fra i guerrieri, veniva cosí umiliato intorno alle mura della sua città, per la quale pochi istanti prima combatteva; allo spettacolo orrendo assisterono tutti, amici e nemici, padre e madre. Questi ultimi, vedendo il figlio cosí deturpato si disperarono: lei si strappò il velo dal capo, lui scoppiò in un pianto inconsolabile come tutta la città: era morto il solo uomo che l’amava veramente. Cosí calava la sera e, allo stesso tempo, le tenebre che avvolgevano una Ilio sempre piú cupa, piena di malinconia e rimpianto nei confronti dell’eroe abbandonato al proprio destino.

Solamente una figura mitica irruppe nell’inquietante silenzio con lo scopo di rivolgere parole all’incontrastato sovrano della città. Uno fra gli déi che governavano dall’esterno il conflitto aveva finalmente preso la decisione di porgere aiuto al popolo troiano, al fine di alleviare il dolore del lutto da poco tempo scatenato. Si diresse verso le porte monumentali delle sterminate mura e vi penetrò senza causare il minimo rumore. Nessuna guardia, esterna o posta ai piedi della rocca, si accorse della sua presenza, tanto che il breve tragitto, per il misterioso personaggio coperto dal mantello, si dimostrò ancora di minor durata. Giunto davanti al trono, scoprí il suo volto cupo rivelando uno splendore lucente, abbagliante, pari solo a una divinità: era Ermes. L’andatura inizialmente pacata e lenta divenne decisa e inspiegabilmente solenne. Poche furono le parole che quel giorno, per l’unica volta, un esponente del mondo divino rivolse a Priamo, ma si dimostrarono efficaci per far comprendere a quest’ultimo che il leggendario figlio troiano avrebbe dovuto fare ritorno nell’amata patria. Nello schieramento opposto i guerrieri achei continuavano a non portare il minimo rispetto nei confronti dei resti di Ettore, sottolineando cosí la poca importanza che questo rappresentava agli occhi dei nemici. Solo i re mantennero un atteggiamento complessivamente indifferente nei confronti del defunto. E il potente comandante Agamennone si distingueva tra questi, dal momento che proprio quella notte aveva scatenato una nuova lite con l’eroe Achille. Il celebre generale sosteneva, infatti, che il gesto commesso durante il duello fosse stato del tutto inutile e privo di decisive conseguenze per il conflitto. Le parole di Agamennone non ebbero nessun effetto sull’animo del Pelide, in quanto l’orribile senso di colpa per la morte di Patroclo continuava ininterrottamente a mantenere vivo il grande tormento.

Il mattino del giorno seguente il saggio re Priamo salí sul manto dei bianchi cavalli, accompagnato dalla moglie. Si diressero verso l’accampamento acheo, marciando con velocità sulla lunga pianura circostante. Durante tutto il viaggio il re rifletté attentamente su quello che avrebbe dovuto dire all’eroe della guerra. Condivise le idee con la moglie, in modo da ottenere l’appoggio e l’approvazione di una madre affranta dal dolore. Il tragitto non fu di lunga durata, perciò i due genitori si ritrovarono immediatamente di fronte all’accampamento nemico. Quindi l’uomo anziano si nascose nella sua veste ornata di lussuose decorazioni, chiedendo alla moglie di seguirlo alle sue spalle. Il passo dei due appariva timoroso e teso, quasi a voler aumentare l’inquietudine di un’atmosfera indescrivibile. Achille sedeva solo, in disparte dai compagni, accanto al seggio vuoto del fidato amico Patroclo. Un viso chiaro, ma dominato da una profonda rabbia, delineava la figura dell’eroe, ancora in lutto per la propria perdita, ma lieto di aver portato a termine la sua vendetta.

Le numerose tende achee ostacolavano il passaggio agli indesiderati visitatori e rendevano loro complicata la strada verso il cadavere del figlio. I guerrieri sottoposti al calore cocente del sole di quella mattina si accorsero della loro presenza, ma decisero a non compiere alcun gesto fino al momento in cui sarebbero venuti a sapere delle loro identità. Il sovrano si liberò degli indumenti, rivelandosi a tutti i soldati presenti. Il medesimo gesto lo fece la moglie, la quale subito scoppiò in un lungo lamento disperato, pensando alla perdita dell’amato figlio. Entrambi temevano per la propria sorte, ma la determinazione nel riavere il corpo di Ettore era piú importante di ogni altra cosa. Vedendo e comprendendo l’intenzione di quell’uomo tormentato ma allo stesso tempo regale, le nobili guardie aprirono il passaggio agli sconosciuti e fornirono loro aiuto per giungere ai piedi dell’eroe. Dalle mura di Troia, però, un uomo a cavallo prese il passo e iniziò la corsa verso l’accampamento nemico. Alla carica del destriero bianco vi era il secondo principe della città, anch’egli alla ricerca di un’insaziabile vendetta: Paride, il fedele fratello. Il suo viaggio attraverso il lieve vento di quel giorno divenne per lui ancora piú breve di quello intrapreso dai genitori. Già sceso dal cavallo, egli si diresse a piedi verso l’accampamento, cercando di non provocare il minimo rumore. Con passo spedito e la schiena profondamente inclinata si mosse velocemente tra ogni capanna, senza scatenare nei guerrieri alcun sospetto. Il metodo di avanzamento risultò perfettamente elaborato, tanto che neanche i genitori si resero consapevoli di ciò che stava accadendo. Priamo, ormai avvolto da un irreparabile dolore, reggeva sulle spalle il triste viso angelico della moglie e aveva preso posto presso la dimora di Achille. L’eroe dalle molteplici emozioni frenò il primo istinto sanguinario e decise di non mostrare loro il cadavere massacrato del proprio figlio. Riunitisi, quindi, intorno a un falò, e circondati dai soldati achei, i tre intrapresero una discussione che non avrebbe avuto il finale sperato: la richiesta del vecchio re imponeva la restituzione del corpo del defunto, in quanto meritevole di un’adeguata sepoltura, mentre la tesi di Achille era quella di aver intrapreso una vendetta sana e senza alcun rimpianto. La risposta achea prevalse sulla richiesta troiana, ma incredibilmente l’eroe concesse al padre un ultimo gesto di addio: gli propose di abbandonare il cadavere del figlio su una barca e di lasciarlo trascinare dalla forte corrente del fiume Scamandro. Fu la madre, in questo caso, a esprimere parole di ringraziamento nei confronti dell’eroe. I tre abbandonarono il luogo del dialogo al fine di dirigersi verso la sponda del fiume.

Paride era nascosto all’interno di una tenda e assisteva a tutta la scena, ma nonostante l’apprezzato gesto di Achille, la visione del corpo del fratello scatenò in lui un sentimento di vendetta tale da non poter essere placato. Achille avanzava con il corpo tra le braccia, con lenta andatura, verso i sovrani troiani, mentre il principe si spostava tra le capanne senza tregua. L’eroe avvolse il defunto con un bianco manto, e lo adagiò attentamente sulla barca. Tutto l’esercito si trovava distante dai tre, mentre l’altro giovane si era nascosto nella tana dell’assassino. Con una mira infallibile puntava, dall’interno della tenda, l’arco verso l’eroe acheo e, poggiando la freccia appuntita sul filo sottile, tirò con tutta la forza, sprigionando il suo odio verso l’unico punto debole del Pelide. Il tallone si polverizzò in un istante, lasciando dietro di sé una scia di sangue ben delineata e conducendo con lui l’intero corpo di Achille. Priamo assistette al totale disfacimento dell’eroe piú potente dell’intera guerra, ma fu l’ultima volta in cui i suoi occhi rimasero aperti alla luce del sole: un attacco acheo da parte di tutti i soldati pose fine al lungo regno di un re incontrastato e con lui alla distruzione di una famiglia. Il giovane principe troiano che aveva voluto vendicare il proprio fratello, aveva ottenuto solo dolore, provocando la morte dell’amato padre.

Matteo, Diego, Francesco, Edoardo

 

Mentre infuriava la battaglia, fu quello il momento in cui Agamennone traditore tolse la vita a Patroclo orgoglioso. L’Atride fu rapido, con taglio preciso recise la strozza al giovane eroe, il bell’elmo di Achille nella polvere rimbalzò silenzioso. Subito il traditore raccolse il corpo del giovine, restituendolo al campo Mirmidone. Cosí si compí il malefico inganno al Pelide. Con parole fraudolente parlò il figlio d’Atreo: «Achille, brutte notizie porto dal campo, Patroclo è caduto per mano di Ettore Teucro, la sua anima e il suo cuore ormai son di Ade». Achille, stolto, alle parole del Pastore di Popoli credette, disperandosi e piangendo.

Per tutta la notte il Pelide ululò di dolore, invocando gli déi e chiedendo vendetta. L’indomani si destò al sorger del carro di Febo Apollo; il campo raggiunse con nuova armatura divina. Subito i Teucri spaventati indietreggiarono, ma con tuonanti parole Ettore i suoi rincuorò: «Uomini figli di Ilio, Achille è uomo comune, non è immortale il suo corpo, né imperforabile la sua armatura; tuttavia chi vuole scappare lo faccia, ma verrà raggiunto subito dalla mia lancia».

Un nuovo scontro iniziò nella piana troiana. Strage di troiani fece il Pelide e di rosso la piana si tinse. Dopo poco le mura di Troia, difendendo i loro, si chiusero. Solo uno strenuo difensore si oppose, Ettore Teucro. Il prode tentò di fermare il Pelide. Ma col petto gonfio d’ira si scagliò l’acheo sul nemico. Il tempo d’un batter di ciglio e il figlio di Priamo fu gettato a terra. Con rabbia parlò Piè Veloce al nemico domato, con la lancia appoggiata sul suo cuore, pronta a colpire. Parole rabbiose uscivano dall’acheo: «Maledetto tu che hai ucciso Patroclo, andrai oggi al suo fianco nell’Ade». E si preparò a finire Ettore, quando egli parlò: «è vero che io ho ucciso molti achei, ma Patroclo no, mai mi sono avvicinato e mai l’ho colpito. Giuro su quello che ho di piú caro; ma se vorrai finirmi fai pure, sappi però che ucciderai un innocente».

La Pallade, sentite queste parole, giú dall’Olimpo scese per aiutare il Pelide, suo pupillo. Proprio mentre Achille stava per finire l’innocente Ettore, ella afferrò dell’acheo il braccio che la magnifica lancia reggeva. Il figlio di Teti di questo si accorse e fermò il colpo micidiale per il Teucro. Atena aspramente parlò all’eroe: «Agamennone, Pastore di Popoli, ha teso a te codesto inganno» rispose la Pallade. Achille la possente lancia posò a terra e sulla piana, territorio di Ares, si gettò in pieno sconforto, ma grande rabbia in lui ardeva. Parlò con collera indescrivibile maledicendo l’Atride. Tornò al campo Achille con occhi gonfi di lacrime. Ettore Teucro lo seguiva e il suo grande avversario osservava. Nella tenda dell’Atride, Agamennone e Bacco festeggiavano l’ordito inganno. Il Mirmidone entrò con spada sanguinata e furore immenso. Di lí a poco, un grande omicidio si sarebbe compiuto.

Il Pelide con forza colpí al capo Agamennone con l’enorme spada. L’Atride spirò in fretta e subito dopo molti achei sul Pelide si avventarono. Molti seguirono il destino dell’Atride: chi infilzato, chi diviso di netto. Altri guerrieri erano pronti ad attaccare, fin quando il Teucro prese parola e raccontò dell’inganno. Anche se controvoglia, gli Achei credettero al troiano. Gli achei nelle loro tende si rinchiusero per la notte. Al sorgere del sole, il giovine Menelao si recò nella tenda del fratello. Grande tristezza invase il suo cuore quando lo vide morto. Decise allora che vendetta si sarebbe compiuta. Molti dèi il prode invocava: «O dèi, che sia mia la forza per vendicare la morte di mio fratello, da parte di un individuo che un tempo chiamavo amico».

Menelao ormai cieco nel suo dolore, il senno smarrí completamente. Corse allora da Achille per dichiarare all’eroe messaggi di sventura per gli Achei, perciò doveva il maledetto troiano finire tra le fauci del Cerbero. Ancora straziato dal dolore per Patroclo e non consapevole fino in fondo dei suoi gesti, il prode Achille la folle idea del re di Sparta accettò. I due prodi sul campo di battaglia scesero all’arrivo del carro di Febo. Il loro avversario sul campo di battaglia cercava il Pelide, con le lance pronte a colpire. Ma ancora alcun troiano sulla piana si vedeva. Il tempo trascorreva lento sul campo, quando i troiani scesero guidati da Ettore nemico. Iniziò con furore l’ultima decisiva battaglia. Altre nefaste perdite il Pelide inflisse ai Teucri. Colpiva il divo Achille con la spada cercando Ettore, seguito dal prode fratello del defunto Agamennone. I due achei videro Ettore tra le file nemiche e all’attacco si scagliarono con immensa ira contro di lui. Ma ecco che la Pallade, con immensa nube, il re di Sparta e il divo Achille lontano dallo scontro condusse. Il Pelide, gonfio di immenso furore, la dea tentò di colpire, ma con tocco magico la dea l’animo dell’eroe cangiò. Pallade Atena dell’inganno dell’Atride raccontò al fratello, che al Pelide infinite scuse rivolse, una volta appresa la dura verità. Pianse il biondo Menelao per le azioni del fratello. Intanto, sulla piana, numerosi morivano. Il Pelide e il re di Sparta tornarono sul campo, a gran voce il prode re di Sparta notizia proclamò e s’arrestarono improvvisamente tutti i guerrieri. Grandi parole Menelao pronunciò: «Uomini, il tempo di battersi è terminato, grande pace ci sarà tra Achei e troiani se mi si restituirà ciò che mi è stato tolto».

Giunto era Priamo per udire il discorso del prode. Fece il vecchio chiamare suo figlio Paride. Elena doveva assolutamente essere restituita se si voleva salvare Troia. Paride con molta superbia parlò al grande Menelao: «Tu acheo, mai avrai Elena, dovessi venire in codesto palazzo e portarmela via!». La rabbia scorreva in Menelao ma gli fu impedita risposta, i troiani stavano ricoprendo Paride di pesanti insulti: «Tu, codardo grandi parole dici, ma non sei su questa piana a combattere!». Di vergogna il principe troiano si coprí e sua altra scelta non fu se non quella di restituire la bellissima Elena. Finí così la guerra a causa della bellissima donna e lunga pace ci fu fra troiani e Achei.

Sofia, Mattia, Cecilia, Filippo, Riccardo

 

Priamo, il saggio re di Troia, scende da quel leggendario carro e si appoggia con nostalgia e amarezza al suolo. È solo; la divina guida che lo aveva condotto fino a quella tetra tenda è svanita nell’oscurità della notte. Con animo nobile e pensoso riflette, ma, senza ottenere il tempo necessario per elaborare un pensiero concreto, due individui dalle splendenti armature gli si avvicinano con portamento severo e diffidenti lo spingono a muoversi all’interno della capanna.

Achille è seduto sul suo regale seggio in tutta la sua imponenza, lo sguardo fisso nel vuoto. Il re troiano percepisce improvvisamente un brivido lungo la schiena, mentre due occhi gelidi e inespressivi si posano su di lui. È in quel momento che Priamo inizia a dubitare della sicurezza con cui è giunto all’accampamento acheo: comincia a rimpiangere le mura sicure della sua Troia, senza però mettere mai in disparte la consapevolezza dei propri doveri. Quindi avanza con passo incerto verso il piú temibile degli eroi fino a quando non gli è cosí vicino da sentirne lui stesso l’ira profonda. Con rispetto china le proprie labbra sulle mani dell’assassino del figlio suo piú valoroso, sentendo la disperazione che lo avvolge sempre piú rapidamente.

Achille è impassibile, osserva l’anziano sovrano con aria furente e addolorata e lo incita a parlare in fretta, quasi impaziente di ascoltare come avrebbe potuto essere convincente. Priamo allora intreccia le sue mani a quelle del nemico recitando parole pesanti, pietose: «Pelide Achille, guerriero divino, ascolta queste suppliche di un padre dal cui cuore hai strappato il figlio piú impavido, l’eroico primogenito. Lascia ti prego che Ettore, principe di Troia, si riunisca un’ultima volta al suo popolo, alla sua patria per poi ottenere una sepoltura degna delle sue gesta». Dopo l’ultima frase, tutto tace, in ogni settore dell’accampamento acheo regna il silenzio della notte. Priamo è in ginocchio, lo sguardo a terra distrutto, ma speranzoso. Achille invece è furioso, non trova il motivo per concedere un’eterna pace a un uomo che ricorda solo come l’uccisore del suo piú caro amico. Risponde forzatamente, sceglie un linguaggio aspro, irrispettoso nei confronti di un sovrano tanto giusto come Priamo: «Torna a Troia vecchio e smettila di perdere tempo. Non c’è alcun pensiero nella mia mente che mi ricordi Ettore come lo descrivi tu; non ha avuto pietà per Patroclo per questo io ne avrò per lui». Cosí, concludendo, fa per alzarsi assicurandosi con lo sguardo che due lance appuntite siano pronte a reagire in caso di tentata fuga del troiano. Quest’ultimo però, in preda alla desolazione che lo sta assalendo, è svelto e ferma il guerriero pregandolo nuovamente: «Ti supplico, pensa a tuo padre, alla disperazione e a quel vuoto che gli creeresti cadendo qui per mano nemica. Cerca di scorgere le emozioni dietro al suo volto dall’espressione distrutta e sconvolta. Non credi desidererebbe saperti almeno sereno, in un mondo di pace, sentendosi consapevole di aver fatto tutto ciò che gli era possibile ottenere per te?»

L’eroe è immobile, i suoi occhi lasciano trasparire un lieve sentimento di commozione. Ha visto davvero il padre nell’uomo che ha di fronte, cosí lo fa alzare e con uno sguardo nuovo lo conduce fuori dalla capanna verso un carro lugubre, quindi scosta un telo e piange. Ettore è lí disteso, o almeno quello che di lui rimane. Si vede solo un corpo massacrato, devastato e torturato. Per Priamo è troppo, ma non può abbandonarsi alle tenebre che lo stanno avvolgendo perché davanti a tutti lui è re, un uomo saggio e molto forte. Tuttavia è sorpreso, non immaginava certo di vedere un eroe come Achille mostrare emozioni cosí evidenti davanti a un omicidio tanto voluto ed eseguito da lui. Sembra davvero scosso, le lacrime gli rigano il volto. L’eroe prova vergogna, sa che nessun padre può meritare ciò che sta vedendo il re di Troia in quell’istante.

Achille in quel momento comprende di essere giunto a un limite, la sua vita eroica non gli pare piú cosí indispensabile perché non trova piú nulla da perdere. Sa bene infatti di essersi guadagnato la gloria eterna già da molto tempo, i giorni che il fato ancora gli concederebbe gli paiono inutili, capaci solo di ampliare il vuoto creato dalla mancanza di Patroclo e dalla vergogna atroce per le torture inflitte a un vero eroe come Ettore. Pensa a questo mentre Priamo cerca di contenere il piú possibile le sue emozioni davanti a uno spettacolo cosí straziante. Achille ormai ha deciso; in cuor suo prega la madre Teti, le chiede perdono per ogni offesa di cui è colpevole; poi si rivolge a Zeus. Supplica silenziosamente di essere privato di tutte le angosce che prova; chiede davvero la fine di tutto, perfino della sua vita. Sull’Olimpo le divinità sono sorprese, alcune piangono, altre gioiscono; attendono tutte la decisione del piú potente. Infine un arco dalle frecce avvelenate giunge solennemente dal cielo sulla Terra accanto al re Troiano. Priamo lo afferra con aria di nuovo nobile, guarda il figlio di Teti. Quest’ultimo annuisce con un’espressione particolare sul volto; pare quasi sognante. I loro sguardi si incrociano un’ultima volta prima che il saggio sovrano scocchi la freccia che colpisce Achille proprio in un tallone. Il giovane chiude gli occhi, lascia che il veleno si diffonda nel suo corpo mentre la morte lo riunisce all’amico Patroclo che lo attende in un regno eterno. Cosí la vita abbandona il piú forte degli eroi greci.

Priamo improvvisamente riconosce di essere spaventato, ma non pentito, Troia è pur sempre in guerra e Achille rappresentava una minaccia logorata dalla gloria. Gli dèi sono in grado di non attribuire colpe al sovrano, quindi fanno in modo che egli possa recuperare il cadavere del figlio, caricarlo su un carro e uscire ancora nascosto dall’accampamento acheo. Priamo rientra a Troia prima dell’alba: non ha fretta di ricominciare a combattere ora che ogni schieramento ha un eroe da piangere.

Alessia, Chiara, Claudia, Capitolina, Laura

 

Nel silenzio della notte la città di Troia, sprofondata in un abisso di dolore, piangeva ancora la morte dell’eroe Ettore. Mentre le lacrime copiose rigavano i volti dei troiani per il peso del loro inevitabile destino, l’accampamento acheo era nel pieno dei preparativi per l’ingannevole ritorno in patria. Infatti, dietro le imponenti mura di Troia, si nascondeva l’ingegnoso sotterfugio architettato dal divino Ulisse: il cavallo di legno.

Era ormai giunta l’ora del giudizio, il cavallo era entrato nella ricca città, i soldati achei uscirono allo scoperto scatenando l’inferno. Saccheggiarono gli enormi templi, infuocarono le case, violentarono le donne, picchiarono e resero schiavi gli uomini. In questa atmosfera di terrore e paura, una donna vedova con il suo unico figlio cercava disperatamente una via di fuga da questa situazione di caos. Andromaca correva senza sosta tenendo per mano il suo Astianatte, lasciandosi alle spalle una coltre di fumo e frecce infuocate. La stanchezza e la fatica si facevano prepotentemente strada dentro di lei, ma il dolore lancinante e la sete di vendetta la spingevano a non fermare la sua corsa. Guidata da una determinazione sovrumana a lei estranea, riuscí a raggiungere un gruppo di audaci troiani fuggitivi, a cui affidò speranzosa il figlio Astianatte. Lo baciò sulla fronte e, senza voltarsi indietro, riprese la sua corsa verso la spiaggia. Lí, gli Achei rimasti, aspettavano i compagni, e appena la videro si fiondarono su di lei come avvoltoi. La presero di forza e la spinsero su una delle loro navi. Andromaca, spaventata, ascoltava il dialogo dei soldati: «Povera illusa, si è appena consegnata nelle mani di Ade» disse il primo. «Sembra di alto rango, potrebbe essere un degno premio per Agamennone» disse il secondo.

Approdati sulle coste greche, la donna, insieme a un altro gruppo di malcapitati troiani, venne condotta nella residenza del re dei popoli Agamennone. Lo sfarzo e il lusso del palazzo ricordarono ad Andromaca lo splendore e la grandezza della residenza di Priamo. La vita a palazzo era difficile e sfiancante, ma la sua voglia di vendetta era l’unica cosa che le faceva superare la giornata. Arrivò finalmente il momento in cui decise di agire. Approfittando del banchetto che si sarebbe tenuto la sera stessa, avrebbe ucciso Agamennone nella sua stanza, ma non poteva permettersi di lasciare tracce che conducessero a lei; avrebbe incolpato la moglie del re, Clitemnestra, anch’ella mossa dalla rabbia per la morte di sua figlia per mano dello stesso Agamennone. E cosí fece.

Dopo il banchetto, si diresse silenziosa nella stanza del potente sovrano, si sedette sul suo letto e cominciò a massaggiargli la schiena con oli profumati. Nel mentre, di soppiatto, tirò fuori il pugnale affilato. Prima di colpire, rivide nella sua mente il sorriso dell’amato Ettore. Poi, con mano tremante, affondò il coltello nella carne. Agamennone urlò dal dolore e dallo stupore. Colpì di nuovo, con più violenza, mentre gli occhi si riempivano di lacrime e sentiva Ettore che, dentro di lei, le sussurrava parole incoraggianti. Si alzò con le mani ancora tremanti, il volto bagnato dalle lacrime e osservò un’ultima volta il corpo inerme di colui che aveva segnato la sua vita. Dopo il delitto, come un’ombra, uscí dal palazzo e decise di andarsi a riprendere la sua ormai unica ragione di vita, il figlio Astianatte. Partí, sapendo che sarebbe stata tormentata dagli incubi tutta la vita e pensando di non aver ucciso la reale mano assassina di suo marito, ma colui che aveva sostenuto piú di tutti quell’inutile guerra.

Gaia, Silvia, Anna S., Anna T.