Fortunato CerlinoSe vuoi vivere felice

Erminia D’Auria (Cava de’ Tirreni)

Nel suo romanzo d’esordio, Se vuoi vivere felice, Fortunato Cerlino racconta la sua esperienza di bambino che è riuscito a diventare «imprenditore dei suoi sogni», capovolgendo lo stereotipo di un destino fin troppo scontato, che vuole che Pianura, periferia napoletana in cui i bambini bruciano troppo presto la loro infanzia, sia un luogo dove «chi è nato tondo nun può murí quadrato». «Io da grande non farò il contadino… farò l’astronauta». Fortunato bambino, ‘o strologo, come lo chiama il padre, sogna di fare «prima di tutto il cantante, poi l’astronauta, l’attore, lo scrittore», per non tornare a casa «con tutti quei sassi che abbiamo sul tetto e sul cuore».

La realtà, però, lo costringe ad accettare il fatto che a dieci anni, a Pianura, si è grandi abbastanza per rinunciare alla Befana e al secondo piatto. A scuola, poi, «la povertà è una malattia, un’umiliazione», tutti cercano di nasconderla, nella speranza di scampare a un destino che è «una calamita, difficile sottrarsi al suo volere», un destino che non lascia scampo, come ai «figli do’ Bulldog», che vivono di rapine e violenza. La povertà, nascosta dentro casa o al massimo bisbigliata, si manifesta prepotentemente nella vita di Fortunato con l’arrivo dell’ultimo fratello, Carletto, quando il papà annuncia, nel silenzio quasi assordante di tutta la famiglia riunita, che qualcuno dei figli dovrà dargli una mano per «fà tradì qualche soldo in piú dinto’ a casa». Allora, «il silenzio della consapevolezza… non lascia scampo… la speranza è un rumore di fondo: ma quando anche la speranza finisce, nessun rumore trova piú spazio. E allora, finalmente, arriva il silenzio, quello vero». Eppure, la povertà ha anche il sapore del brodo di polipo gustato nelle vie di Napoli, quel sapore che lo farà sentire orgoglioso del padre e, nonostante le profonde differenze, una cosa sola con lui.

Fortunato, da adulto, cercherà invano degli ambulanti che gli facciano ricordare di essere stato povero un giorno, di essere stato un bambino salvato dalla propria fantasia, uno che non ha smesso di sognare e di sperare. In una società stordita dal fragore delle réclames, Fortunato recupera il valore del silenzio, che permette di ascoltare il suono dell’anima, del cuore che crede in un miracolo. «A volte può succedere che, per qualche ragione, ‘a capa si riempie d’aria e si fa piú leggera, e allora diventiamo piú leggeri pure noi. I nostri atomi, come i palloncini, accummenciano a salí verso l’alto, verso i cieli, creando spazio tra i pensieri. È dinto a quello spazio che avvengono i miracoli… Ed è pure nei sogni che se uno nasce tondo, po’ murí quadrato».

Cerlino, sul filo dell’emozione che guida i suoi ricordi, riesce a cogliere con lucidità e poesia alcuni dei molteplici aspetti che caratterizzano Napoli, pur nell’impossibilità di afferrare appieno il senso di una città sfuggente, misteriosa, piena di contraddizioni, e restituisce autenticità alla sua cultura, nella scelta (tra le innumerevoli possibili) di inserti dialettali che virano verso la versione spagnoleggiante di una lingua che esprime il carattere poliedrico delle sue numerose sfaccettature.

Erminia d’Auria insegna lettere e latino al liceo scientifico A. Genoino di Cava de’ Tirreni (SA).