Marco MarsulloI miei genitori non hanno figli

Silvia Grima (Barletta)

Una scrittura leggera mai però priva di sostanza, un’ironia allo stesso tempo divertente e amara che consente di tenere insieme uno sguardo profondo sulla vita e un sano distacco rispetto alle proprie debolezze e a quelle degli altri. È il «segreto del successo» dei romanzi di Marco Marsullo, giovane scrittore napoletano, che lo scorso 21 Marzo ho avuto il piacere di ospitare nella mia scuola, il liceo scientifico Carlo Cafiero di Barletta, nell’ambito del Progetto Lettura.

Studenti di dieci classi, fra prime e seconde, si sono confrontati con l’autore dopo aver letto due dei suoi romanzi: Atletico Minaccia Football Club e I miei genitori non hanno figli, il primo romanzo d’esordio nel 2013, l’altro fresco di stampa lo scorso anno.

Il primo racconta la storia di un improbabile allenatore di calcio, al secolo Vanni Cascione, alle spalle una sfilza di esoneri e fallimenti ma, dalla sua, una incrollabile passione per il pallone e una altrettanto incrollabile, pur se non condivisa, fiducia in se stesso. La vita gli offre un’ultima possibilità: allenare l’Atletico Minaccia e partecipare al Campionato. L’impresa non sarà facile senza finanziamenti e con un gruppo di individui che difficilmente potranno diventare squadra. Il miracolo riuscirà mentre si snoda il filo di un racconto che, attraverso la metafora del calcio, ripercorre l’epopea del quotidiano fra sconfitte e trionfi, umiliazioni e speranze. E non importa se il rigore non viene segnato perché, si sa, «non è da questi particolari che si giudica un giocatore», e inoltre, se è vero che nel calcio conta solo chi vince, Cascione impara che «ogni tanto, conta pure chi perde», sul campo come nella vita.

Con I miei genitori non hanno figli, titolo sorprendente che richiama la canzone di Rino Gaetano Mio fratello è figlio unico, Marsullo affronta la storia di un diciannovenne, figlio di genitori separati, fermo di fronte al bivio più importante della sua vita: quale facoltà scegliere dopo la maturità. Il romanzo, vera e propria storia di formazione, racconta il percorso di questo ragazzo, volutamente privo di un nome, e privo anche di punti di riferimento, dal momento che mamma e papà sono troppo occupati a rimettere in sesto le loro vite dopo il naufragio del matrimonio. Adulti disattenti, in crisi di identità o richiusi in se stessi, in ogni caso sordi alle aspirazioni e ai bisogni del figlio; e giovani tutt’altro che «sdraiati», che, invertendo i ruoli e diventando loro i genitori di genitori diventati figli, riescono a prendere la loro vita in mano.

Al finale aperto, proprio come il mare che il protagonista scorge nell’ultima pagina uscendo dall’Università, e dal tunnel di inerzia, nel quale quasi senza accorgersene, si era infilato, è affidato lo scioglimento della vicenda e la rinascita del giovane («Per una volta mi sono voluto regalare il lusso di non stare fermo»).

Apparentemente diversi, i due romanzi sono molto più vicini di quello che può sembrare: ad accomunarli, oltre allo stile, la predilezione di Marsullo, verso gli anti-eroi, uomini dati ormai per persi, alle prese con i propri fallimenti e le proprie fragilità. Eppure proprio nel gesto mancato, nel finale incompiuto, in quella zona fluida in cui il lieto fine, anche quando c’è, non è così netto e definitivo, il lettore ritrova l’impronta del proprio barcamenarsi quotidiano fra cadute e risalite. Con un unico filo conduttore: ascoltare se stessi e crederci.

Silvia Grima insegna italiano e latino al liceo scientifico Carlo Cafiero di Barletta.