Ester ArmaninoStoria naturale di una famiglia

IIS Santorre di Santarosa e CPIA Braccini
in collaborazione con Leggermente

Storia naturale di una famiglia: come ti è venuta in mente la metafora degli insetti?

In un documentario ho visto una cicala compiere la muta per crescere e questo fatto mi ha impressionato. Non molto tempo dopo mi sono ritrovata a scrivere di una madre che faceva la stessa cosa in cucina, davanti alla figlia adolescente stupefatta, e da quella scena iniziale si è poi sviluppata tutta la storia. È il potere creativo dell’analogia, raccontare un tema complesso, il passaggio dall’infanzia all’età adulta, attraverso qualcosa che gli assomiglia ma è più semplice da immaginare e quindi piú potente.

La madre che fa la muta rappresenta il cambiamento, ma perché non sono mai raccontate apertamente le sue emozioni?

Bianca ha paura del dolore che prova sua madre, in cui riconosce il proprio, e per questo lo lascia fuori campo. Inquadra i dettagli di quella muta ingigantendoli al punto da farli risultare alieni, escludendo i sentimenti perché del resto cosa prova una cicala? apparentemente niente. Ma nel corso della storia questa inquadratura serrata si apre, gradualmente i sentimenti si rivelano e le persone diventano finalmente intere, acquisendo fattezze umane.

Perché è il padre ad avere il ruolo negativo di rompere il guscio famigliare?

A rompere l’apparente equilibrio sono entrambi i genitori: la madre sacrificando il proprio bene individuale per quello collettivo, il padre esaltandolo egoisticamente. I genitori di Bianca a un certo punto smettono di essere perfetti e si rivelano nella loro umanità fatta di difetti, sbagli, cattiverie, agende segrete, eccetera. Le famiglie si spaccano quando sono gusci troppo rigidi, incapaci di espandersi attorno ai cambiamenti naturali dei componenti e alla loro crescita.

Il personaggio di Rosetta, a differenza della madre di Bianca e delle altre donne del libro, non è mai paragonato a un insetto: come mai?

Rosetta è la figura materna e rassicurante di cui Bianca si fida, per questo è raccontata nella sua apparente interezza. Dico apparente, perché Rosetta all’inizio aderisce pienamente al cliché della domestica, è un personaggio abbastanza «piatto». Crescere per Bianca vorrà dire anche scoprire la tridimensionalità e la complessità di questa donna, come a dire che la muta si compie soprattutto mutando il nostro modo di guardare gli altri.

Perché come titolo di ogni capitolo hai scelto singole parole?

Sono parole chiave o parole che ribaltano il senso del capitolo. La storia è così tutta riconducibile a un vocabolario. Parafrasando Anna Karenina, si potrebbe dire che il vocabolario di ogni famiglia felice si assomiglia, mentre ogni famiglia infelice ha un vocabolario infelice tutto suo.

Se un lettore ti confida che con questo romanzo hai raccontato proprio la sua storia e che si è sentito rappresentato dalla protagonista, tu cosa provi?

Subito provo un sentimento di forte amicizia per quel lettore. Poi razionalmente penso che come autrice non ho mentito, al contrario sono stata credibile senza abusare del potere letterario.

Serve molta disciplina per scrivere a livello professionale?

Piú che disciplina, serve una grande capacità di accettare la frustrazione come controparte del talento. Bisogna essere autorevoli, prima ancora che autori. Io per esempio all’inizio archiviavo anche le cose brutte che scrivevo, le mettevo da parte convinta che prima o poi potessero servirmi, adesso invece cancello ogni pagina che non suona come vorrei, magari è pure bella ma non importa. È più importante fare spazio.

Quando scrivi hai già tutta la storia in mente?

Quasi mai. Anche perché a un certo punto i personaggi vorranno fare di testa propria e la storia che avevo in mente risulterà un’imposizione. Scrivendo L’arca, il personaggio di Pietro all’inizio non funzionava, la sua entrata nella storia non era credibile per un bambino di sei anni. L’ho lasciato libero di fare e lui in qualche modo ha cambiato la storia che avevo in mente, facendo il bambino che era davvero e non quello che gli imponevo di essere.

È stato difficile pubblicare?

Piú difficile è stato trovare una scrittura personale e autentica. Non avevo fretta di scrivere – ero e sono un architetto, raccontavo storie anche cosí – ma urgenza sí e molta. Ho lavorato anche sulla forma e alla pubblicazione sono arrivata con un romanzo curato. Oggi mi sento di dire che, contrariamente a quello che si pensa, la cura che mettiamo nel fare le cose viene notata eccome, rivela che le stiamo prendendo seriamente e che siamo disposti a metterci in discussione per farle ancora meglio.

Scrittura e architettura: come vanno insieme?

Osservare e capire l’architettura allena a una visione tridimensionale della realtà su piú livelli e a diverse scale. È un modo di guardare che nel mio caso coincide anche con il mio modo di scrivere. Ogni storia, poi, può essere tradotta in un edificio e viceversa, per analogia di temi e struttura. Lo insegna Matteo Pericoli con i suoi affascinanti cortocircuiti tra letteratura e architettura, e piace farlo anche a me. Provate per esempio a tradurre il racconto di Aimee Bender Conoscersi in un’architettura surrealista o magari a immaginare la casa sulla cascata di Frank Lloyd Wright come una storia che abbia simili caratteristiche di ritmo, forma e personalità. Il risultato sarà molto interessante.