Simone GiorgiL’ultima famiglia felice

Liceo Statale Moscati, Grottaglie (Taranto)
Classe: IIIB
Docente: Daniela Annicchiarico

Nel tuo romanzo, L’ultima famiglia felice, si fa una vera e propria indagine psicologica dei personaggi; quando la famiglia si disgrega la colpa è di entrambi i coniugi, come mai nel libro questa colpa fallimentare viene imputata per la maggior parte a Matteo?

Diciamo che, in realtà, è Matteo stesso a imputarsi tutte le colpe. A volersele imputare, persino. Perché Matteo Stella è un uomo che, nella vita, si è dato un compito: costruire una sorta di sistema operativo in grado di garantire a lui e alla sua famiglia una felicità costante e inattaccabile. La professione, gli amici, le ambizioni personali, per lui tutto passa in secondo piano. Al centro della sua vita ci sono sua moglie Anna e i suoi figli adolescenti, Eleonora e Stefano. Per anni Matteo li ha resi – o almeno ha creduto di averli resi – felici, grazie alla sua tolleranza, alla sua propensione al dialogo, al suo affetto, e a tutte le mille teorie che ha elaborato per sapere sempre come rispondere ai colpi della vita. Solo che il 12 dicembre 2003, il giorno in cui si svolge il romanzo, la vita inizia a colpire più forte, e Matteo vede la felicità andare in pezzi. Lui si sente colpevole. Come dicevo all’inizio, quasi vuole sentirsi colpevole: se fosse davvero solo colpa sua e delle sue teorie, potrebbe risolvere il problema agilmente. Così per tutto il giorno, con un’ansia che diventa presto disperazione, Matteo passa in rassegna le sue teorie, prova ad aggiornarle, modificarle, farle funzionare come un tempo. Ma più quelle teorie gli affollano la mente, meno Matteo riesce a vedere ciò che ha davanti: la realtà gli sfugge, precipita.

«Essere miti è uno sforzo senza pari», questa è una frase che fai dire a Matteo. Come mai nella nostra società avere un carattere mite è una condanna? In fondo, essere miti non significa essere deboli, vuol dire agire con bontà e gentilezza.

È vero, bontà e gentilezza sono spesso viste con diffidenza. Intanto per invidia. Matteo era sicuro di non essere invidiato da nessuno, ma prima imparerà a sue spese che nessuno è mai al riparo dall’invidia, poi finirà con lo sviluppare una delle sue teorie: si può invidiare chiunque, persino se stessi, persino il proprio passato. Del resto Matteo, con la sua bonomia, la sua famiglia che sembra amarlo così tanto, invidiabile lo è davvero. Ma non c’è solo questo. Il fatto è che, oltre a suscitare invidia, la bontà suscita frustrazione, senso di colpa: quando ti trovi di fronte a una persona buona ti senti obbligato a un esame di coscienza, a chiederti come mai tu non sia capace di essere buono allo stesso modo. E a nessuno di noi piace sentirsi peggiore di qualcun altro; nel nostro immaginario siamo sempre noi i più ragionevoli, comprensivi e amorevoli del mondo. Infine, la bontà, o meglio la mitezza, che è in qualche modo l’atteggiamento con cui la bontà spesso si manifesta, crea rabbia. Perché, come dite giustamente voi e come sapevano bene Gesù, Socrate, Gandhi, la mitezza non è debolezza, anzi può diventare una forza attiva, un’eccellente strategia: come si sconfigge un mite? Come fai a fare la guerra a uno che non la accetta? Inoltre, la mitezza crea rabbia perché può nascondere una dose di pigrizia, una tendenza alla deresponsabilizzazione. Tutti intorno a Matteo avrebbero bisogno di uno scontro con lui. Sua moglie, sua figlia, e soprattutto suo figlio Stefano. E Matteo non capisce che, rifiutandosi di impersonare almeno per una volta la parte del nemico, sta inducendo proprio nei suoi amati quei sentimenti che dicevamo prima: invidia, senso di colpa, e una rabbia che aumenta a ogni mancato scontro.

Eleonora è stata sempre una ragazza piena di vita, aperta a nuove conoscenze e che non esitava a gettarsi in situazioni spericolate, un po’ come noi adolescenti che non ci facciamo intimorire da nulla. Come possiamo allora instaurare una situazione di concordia in famiglia?

Domanda difficile, come è difficile trovare un punto d’incontro tra genitori e figli. L’adolescenza è una rivolta, sempre: è il momento in cui ci si mette alla ricerca della propria identità. Finché eravate bambini, erano i vostri genitori a raccontarvi il mondo, e il vostro ruolo nel mondo. Ora, per voi, è il tempo di diventare protagonisti, o meglio autori di un vostro racconto del mondo, un racconto di cui poter essere protagonisti a modo vostro. È il momento di contestare ciò che vi è stato dato. Questa contestazione, questa rivolta, è inutile cercare di soffocarla. Meglio viverla, come fa Eleonora nel libro, sapendo che non c’è nulla di male nel conflitto. Ma, come diceva uno che se ne intendeva, le rivolte vanno vissute senza perdere la tenerezza. Specie se si tratta di rivolte domestiche: dall’altro lato della barricata non ci sono nemici, ma genitori sperduti come e più di voi. Tutti – e i genitori più di tutti – ci sentiamo di aver sbagliato qualcosa nei confronti degli altri familiari, di aver deluso le aspettative. Tutti ci percepiamo in qualche modo come fallimentari. Ma forse è proprio su questa comune fallibilità che possiamo trovare un punto d’incontro, una zona franca in cui trovare la concordia, un armistizio tra pari. È qui che, tra una rivolta e l’altra, possiamo riscoprire la tenerezza.

Dato che i genitori giustamente impongono dei limiti, come possiamo trovare compromessi?

Mettere dei limiti non è una forma di sadismo: è un dovere dei genitori. Matteo Stella, il padre del romanzo, di limiti non ne pone e, leggendo L’ultima famiglia felice, avete visto quali conseguenze ciò possa produrre. Si cresce per contrasto, ci si forma un’identità se la si può contrapporre ad altre identità. Senza confini, non ci sarebbe nulla da superare, nessuno stimolo ad andare avanti. I genitori sono come i politici: hanno il dovere di fare delle leggi ed esercitare senza infingimenti un ruolo di potere. Se non altro, per lasciare a voi il diritto di contestare quel potere, criticarne le leggi, riscriverle. È per questo che Stefano, coi suoi 13 anni e la sua voglia di ribellione, va in tilt: suo padre non vuole assumersi un ruolo di potere, preferisce ricorrere alla seduzione rifiutando del tutto l’autorità. Ma il torto maggiore che si può fare a un aspirante rivoltoso è toglierli il nemico contro cui rivoltarsi, fare di quel nemico un alleato. Stefano cerca uno scontro diretto, invece il padre gli lascia campo libero. Stefano vuole assaltare la Bastiglia, e si ritrova davanti un parco giochi allestito per lui. Il risultato lo avete letto: Stefano si sente esasperato, trattato da bambino, sminuito; e la rabbia, invece di placarsi, monta fino ad accecarlo.

Anna è un personaggio molto ambizioso e lo abbiamo notato da come gestisce la sua attività. Perché non lo è anche nell’ambito familiare dove spesso non rispetta il marito e trascura i veri bisogni dei figli?

Lo so che Anna è un personaggio che vi ha fatto arrabbiare, perché non la è mamma da Mulino Bianco. Non le piace cucinare, non svolge le faccende domestiche, ha demandato al marito la gestione familiare e il compito di fare da cuscinetto in caso di attriti. Però chi lo ha detto che debba essere sempre la madre a farsi carico degli oneri domestici? Se la famiglia è una cellula sociale, perché ruoli e responsabilità non possono essere rinegoziati di caso in caso? Pensateci, se Anna fosse un maschio, non trovereste nulla da ridire: lavora duro, guadagna bene, non fa mancare nulla ai figli, in realtà li riempie di regali, impone regole sensate e tutt’altro che insopportabili, e non si sottrae al dialogo, anzi è così liberale da confrontarsi con sua figlia Eleonora senza alcun tabù: quanti altri hanno avuto una madre con cui parlare di masturbazione, sesso, contraccettivi e orgasmo? Certo, direte voi, il problema non è solo che Anna lavora e sta molto tempo fuori casa. Il problema è che Anna è arrivata a tradire suo marito, quell’uomo all’apparenza così amabile. E questo a voi sembra imperdonabile. Allora vi chiedo: la felicità è un diritto? La risposta sembra semplice: sì, certo. Ma, se lo è, allora le persone possono cercare la felicità anche oltre i limiti imposti dalla società? Qui la risposta si fa più difficile, e più difficile diventa giudicare Anna. Proviamo prima a capirla, a capire che tutti abbiamo bisogno di sentirci desiderati, specie nei momenti più difficili. Possiamo condannare una donna che ha scelto di inseguire la sua felicità, e che di quella scelta porta le ferite? E, di nuovo, cosa avremmo pensato se al posto di Anna ci fosse stato un uomo? Forse avremmo detto beh, è un buon padre, un buon marito, un errore capita a tutti. Magari avremmo persino giustificato il suo tradimento sottolineando le manchevolezze del partner. Perché non dovremmo avere la stessa indulgenza per una donna? Perché una mamma dovrebbe sottostare a vincoli morali più pesanti di quelli che spettano ai padri?

Ma Anna ama suo marito o ama il fatto che suo marito riempia le sue mancanze e si occupi dell’armonia familiare spesso interrotta da lei?

Niente, Anna vi fa davvero arrabbiare! Anna ama suo marito, questo lo posso dire con certezza. Solo, non più come un tempo. Lo ama con meno forza, con meno impeto. Forse non è più innamorata, ecco. A mano a mano che la passione calava, Anna si è chiesta se dovesse restare con lui o andare via. E si è risposta d’istinto: non posso lasciare un uomo così buono, un marito così bravo, un padre tanto attento e premuroso. Ma in questo non c’è poi molto di male. La solidarietà coniugale è necessaria per un matrimonio ben riuscito. Anna sa di poter contare su Matteo per colmare le sue mancanze, è vero. E viceversa: senza Anna, Matteo non saprebbe come portare un po’ di ordine in casa. Senza Anna, non potrebbe mostrarsi sempre gentile e tollerante, perché ci non sarebbe nessuno a recitare a suo vantaggio il ruolo del poliziotto cattivo. Senza una moglie che lavora tutto il giorno, dovrebbe aumentare lui le ore lavorative, e non potrebbe fare ciò che ama fare, ovvero stare con in figli. Certo, il vostro dubbio è legittimo: questo è amore o mutuo soccorso? È ciò che si chiedono tutte le coppie affiatate, probabilmente. Anche Anna se lo chiede, e il fatto di non avere una riposta certa aumenta la sua inquietudine. E la tentazione di rifugiarsi altrove diventa sempre più forte. Come rinunciare alla felicità?